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Il potere nascosto delle lacrime.
Il pianto è un gesto universale, un linguaggio senza parole che accomuna l’essere umano in ogni angolo del pianeta. Eppure, nel corso della storia, è stato interpretato in modi diversi: talvolta come segno di debolezza, altre volte quale simbolo di empatia o liberazione. Nella cultura moderna, piangere è spesso vissuto come un atto privato, quasi un tabù per chi teme di mostrare la propria vulnerabilità. Ma il pianto è molto più di questo. È un fenomeno complesso che coinvolge corpo, mente ed emozioni, un ponte tra la sofferenza e la guarigione, tra la fragilità e la forza e in questa intervista al dottor Teglia, ne esploreremo il significato e gli chiederemo se il pianto può essere visto come una forma di coraggio. E ancora, quali sono gli effetti che ha sul nostro cervello e sul nostro corpo? E assieme a lui cercheremo di capire come il pianto possa essere un prezioso alleato nella gestione delle emozioni, perché, forse, è proprio nelle lacrime che si nasconde la nostra forza più autentica.
Dottor Teglia, cosa rappresenta il pianto dal punto di vista psicologico? È un segno di debolezza o di coraggio?
Inizio con una definizione del pianto che a me piace molto: “è il segno di un’emozione che scegliamo di raccontare con le lacrime”. E questa può essere segno di dolore, gioia o empatia. Aggiungo che il pianto è un gesto naturale, istintivo e spesso necessario, prova ne è il neonato che inizia il suo percorso di vita piangendo. Il tempo poi trasforma o condiziona l’essere umano e piangere allora assume aspetti diversi. Quanto a definirlo debolezza o coraggio, sono i tempi a definirne spesso i confini. Ad esempio, per gli antichi greci, era normalissimo sapere che Ettore, Achille e tutti gli altri loro semidei non temevano affatto di mostrarsi in lacrime per amore, disperazione, dolore, rabbia, nostalgia o vergogna e questo non scalfiva assolutamente il loro status di eroi per antonomasia. Rispetto invece ai nostri tempi, che sembrano essere legati all’obbligo di dimostrarsi sempre felici, si può dire che una delle emozioni primarie legate al piangere, qual è la tristezza, viene talmente poco considerata che al pianto si associa l’idea di debolezza quando al contrario è un segno di forza e di riequilibrio interiore. Tra l’altro proprio la tristezza ha uno scopo ben preciso, cioè quello di traghettare il passaggio tra due stati emotivi e questo avviene attraverso il pianto.
In che modo il pianto può essere considerato una forma di liberazione emotiva?
Cominciamo con il dire che il pianto è comunque da considerare un “prendersi cura di sé”, al punto che, spesso, dopo aver pianto, siamo in grado di affrontare più lucidamente e con maggior chiarezza una situazione o un problema, in quanto attraverso quel meccanismo abbiamo eliminato una serie di tensioni che in qualche modo ci rendevano più difficile un’attenta o serena valutazione. Altra cosa che tengo a precisare a chi ci segue è l’importanza da dare anche al piangere da soli, senza che questo sia da considerare una dimostrazione di debolezza. Una ricerca ha dimostrato che in media gli uomini piangono tre volte al mese, mentre le donne lo fanno cinque volte, dimostrando così la loro maggior propensione a provare forti emozioni e ad esternarle. Piangere aiuta moltissimo, in quanto riduce l’ansia e aiuta a liberarsi delle emozioni più intense e a tal proposito esiste un’altra frase che secondo me rende appieno il senso di quanto ho detto: “chi non piange si allaga dentro”. Piangere serve anche a recuperare il proprio equilibrio emotivo in quanto si “lasciano andare” le tensioni e gli stati d’animo dolorosi. Il pianto è quasi sempre associato al dolore, all’empatia o alla gioia, un poco come lo è lo scrivere i nostri pensieri su un diario o camminare a contatto con la natura. Mediante questi sistemi il nostro cervello produce ossitocina e endorfina, ormoni positivi e del benessere: l’ossitocina favorisce la socialità e migliora la sensazione di positività, mentre l’endorfina riduce il dolore.
Come reagisce il cervello umano al pianto e quali sono i suoi effetti sul corpo e sulla mente?
Secondo lo psicologo britannico John Bowlby, che intuì come l’attaccamento tra simili riveste un ruolo centrale nelle relazioni tra gli esseri umani (teoria dell’attaccamento 1969), il pianto serve a richiamare l’attenzione degli altri, comunicando la nostra vulnerabilità e il nostro stato di bisogno, esattamente come fanno i bambini (detto in questo caso pianto di richiesta). Da non dimenticare poi che anche la vista di qualcuno che piange produce sugli osservatori degli effetti dovuti ai cosiddetti neuroni specchio, classico, ad esempio, è lo sbadigliare emulando chi sbadiglia. Il pianto di qualcuno, specialmente quello con le lacrime, predispone naturalmente a provare empatia, vicinanza e solidarietà. Un’altra cosa che mi sento di dire ai nostri lettori è quella di non mostrarsi preoccupati davanti a chi piange, ma di reagire in maniera positiva dimostrandogli comprensione e comunanza, provando, per quanto ovviamente possibile, a immedesimarsi in ciò che in quel momento l’altro sta provando.
Può il pianto essere terapeutico? Ed esistono effetti negativi del piangere?
Abbiamo già accennato agli effetti positivi del pianto anche se appare azzardato assegnare a questa positività una funzione specificatamente terapeutica. Quello che mi sento di dire è che l’emozionarsi anche davanti a delle apparentemente semplici espressioni della natura o della nostra società quali un tramonto, un sorriso, un bambino, una musica o uno spettacolo denotano una forte e positiva padronanza della propria intelligenza emotiva e questo è sempre da considerare una fatto positivo che ci deve indurre a valutare quegli “occhi lucidi” quali una conquista positiva. Approfitto però della domanda per parlare invece del “rovescio della medaglia”, cioè del pianto eccessivo che in determinati casi può essere associato a sintomatologie dello stato depressivo. Inoltre il piangere troppo aumenta il cortisolo, l’ormone dello stress e produce un’eccessiva tensione nei muscoli del collo tanto da poter causare forti mal di testa. Esistono poi altri tipi di pianto qual è ad esempio quello del narcisista che, fingendo di stare male, recita una parte per attirare su di sé l’attenzione.
Quali altre situazioni possiamo abbinare al pianto?
Solitamente gli abbiniamo degli stati dolorosi, ma non dobbiamo dimenticare che è possibile piangere anche di gioia o di felicità. E possiamo piangere per indurre a compassione e persino dal troppo ridere (sincinesia o attività motoria involontaria di una parte del corpo). A tal proposito segnalo a chi ci segue che esiste anche un vero e proprio disturbo del ridere chiamato “riso spastico”, conosciuta anche come riso nervoso.
In una società che spesso vede il pianto come segno di vulnerabilità, come possiamo educare le persone a considerarlo un atto di forza emotiva e consapevolezza?
Anche se ancora sembra prevalere l’idea che piangere sia culturalmente inappropriato, credo che grazie allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e alla sua rivalutazione il pianto abbia riacquistato una valenza positiva, in quanto dimostrazione sì della nostra vulnerabilità ma anche della nostra capacità di ritrovare, attraverso appunto il piangere un equilibrio emotivo.
Provo a chiudere questo nostro incontro sul pianto con una riflessione indottami dal nostro esperto: piangere non è debolezza, né semplice istinto, ma una forza silenziosa che ci lega alla nostra umanità.
Attraverso le lacrime raccontiamo le nostre storie più intime, quelle che le parole non riescono a esprimere. Piangere è dunque un atto di coraggio e di consapevolezza ed è da considerare alla stregua di un dono che ci permette di liberarci, di ritrovarci e di connetterci agli altri. Forse, (re)imparare a piangere, senza vergogna né paura, può essere un modo per riscoprire il valore dell’autenticità e della vulnerabilità e di riappropriarci di un equilibrio emotivo più profondo. E come ci ha ricordato il dottor Teglia, non dobbiamo mai temere di vivere le nostre emozioni, perché è proprio nel farlo che diventiamo più forti.
Grazie per averci seguito.
Enrico Miniati