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19 Maggio 2024Benvenuti a questa nuova intervista, dedicata alla Generazione G, un tema che affronta i nuovi scenari, le sfide e le competenze di un’epoca in continua evoluzione. Assieme al dottor Teglia, il nostro esperto, oggi ci addentriamo nell’universo complesso della genitorialità.
La Generazione G, un termine che si fa strada nelle conversazioni contemporanee, non si limita semplicemente a indicare una fascia d’età, ma racchiude un insieme di valori, esperienze e aspettative che caratterizzano chiunque sia cresciuto e si trovi a navigare nel mare digitale e culturale di questo tempo. Come disse Steve Jobs, “Siamo qui per mettere un piccolo mattone su questo grande muro che si chiama cambiamento”. Ed è proprio in questo processo di cambiamento costante che diventa sempre più importante capire e sapere come e dove andare a posare quel “mattone”.
Dottor Teglia cosa intendiamo con il termine “Generazione G”?
È un termine coniato nel 1997 dal Movimento Italiano Genitori (MOIGE), un’organizzazione di promozione sociale, con l’obbiettivo di svolgere azioni di tutela e sensibilizzazione nei riguardi dei genitori in merito all’educazione dei figli di questi tempi, nuovi figli e di conseguenza nuovi genitori. In sintesi significa Generazione Genitori.
Cosa significa in assoluto diventare genitori?
Iniziamo dicendo che si diventa genitori educando i figli, non solo facendoli nascere. Ed esserlo significa sapere in anticipo che non saremo più né autonomi né indipendenti. Chi, nell’attesa, immagina che tutto resterà come “prima”, o quasi, sicuramente avrà di che ricredersi. Significa arrivare al termine della giornata stanchi e non vedere l’ora che il figlio/a si addormenti, senza per questo provare ingiustificati sensi di colpa; i figli sono creature meravigliose ma anche molto stancanti. Aggiungo che, per quanto si cerchi di esserlo, non esistono genitori perfetti, e conseguentemente essere genitori si abbina anche al concetto di sbagliare, senza però che questo comporti il vivere immersi in un’eterna ansia con il costante desiderio di consultare esperti, libri o pediatri. Sbagliare, cercando di farlo il meno possibile, significa aggiornarsi, nutrire la propria intelligenza emotiva, riflettere, cercare il confronto con altri genitori avvalersi dell’aiuto dei nonni e partecipare a momenti formativi per genitori. Questo implica rinunciare in parte ai propri spazi e al proprio tempo, ma è anche questo che viene richiesto a un genitore. E, con il passare del tempo, saper presentare ai figli quello che per la loro crescita è basilare: il rispetto delle regole, i no che fanno crescere, e le relative conseguenze.
Perché si dice che prima ancora di far nascere nuovi bambini, è necessario “far nascere nuovi genitori”?
Perché oggigiorno, in una società nella quale spesso entrambi i genitori sono impegnati fuori casa, occorre saper svolgere questo compito più con la “qualità” che non con la “quantità”. A tale proposito cito due figure (nonni e zii), ribattezzate oggi dalla psicologia, nel loro ruolo di sostegno ai genitori, “nonnità e ziitudine”, le quali, pur in presenza di un mutato quadro sociale sono quanto mai attualissime. E dato che un obbiettivo deve essere quello di saper guidare i figli verso una adolescenza “gestibile”, occorre avere la consapevolezza che essere genitori è sì un “mestiere” antico, ma che mai come ai giorni nostri necessita di essere aggiornato. Senza naturalmente per questo dimenticare tutto quanto di utile ed educativamente positivo ci ha tramandato il passato, compreso il saper accettare, noi per primi, un’emozione transitoria quale la noia, che sembra debba essere bandita a tutti i costi, dimenticando che questa, riferita ai bambini, ha la funzione importante di stimolare fantasia, creatività e quindi autostima. Umberto Galimberti, notissimo psicoanalista, parlando del ruolo educativo dei genitori, sostiene che sono i primi tre anni di vita che plasmano il rapporto genitori – figli, periodo nel quale gli adulti traferiscono ai figli le “mappe emotive” (modo di sentire il mondo) e quelle “cognitive” (modo di capirlo). E per rafforzare questo concetto, cito ancora una volta i nativi americani del Québec, i quali erano soliti affermare che ai figli andavano date le radici e le ali. Personalmente sono del tutto d’accordo con loro, perché sono i primi sei anni le “radici” che dobbiamo rendere forti, successivamente dobbiamo iniziare a lasciare spazio ai figli, per renderli capaci di “volare da soli” (le ali).
Altra cosa, tipica di questi tempi, è il rapporto con la tecnologia, e nello specifico con il cellulare e le altre forme di intrattenimento virtuale. È facile cadere nella tentazione di delegare loro, a volte senza alcuna regola, un ruolo di passatempo o consolatorio, ma così facendo abdichiamo a quello che è il compito primario di un genitore, vale a dire il saper educare, anche alle rinunce. E qui mi torna alla mente una frase di Alessandro Manzoni che sembra scritta appositamente per rafforzare l’argomento: “Non sempre ciò che viene dopo è progresso”.
Ritornando alla domanda, penso poi che siano cambiate molto le tempistiche nel rapporto con i figli, con il tempo trascorso assieme sempre più limitato e sempre più insidiato da un pericoloso rivale che è appunto il virtuale. Ecco quindi che occorre saper gestire questa nuova più difficile realtà adeguandosi ai tempi. Ed essere “nuovi genitori” significa oggi riuscire, intanto a ben capire tutto quel che accade o può accadere nella realtà virtuale, non demonizzandola, ma appunto capendola, poi occorre trasmettere ai figli anche valori quali la rinuncia, la gestione del dolore, che sperimentato in casa, con i genitori, è senza dubbio un “dolore protetto”, rispetto a quello che troveranno poi fuori casa, il saper aspettare, rinunciare e infine accontentarsi. Un compito difficilissimo, ma che ritengo sia indispensabile, come lo è il dare l’esempio, perché le parole aiutano, ma l’esempio è fondamentale. Cosa poi da non fare assolutamente è pensare di diventare amico del figlio/a. Amici e genitori sono ruoli ben distinti che i ragazzi sanno riconoscere, tentare di unirli serve soltanto a creare confusione, a non dare punti di riferimento.
Siamo tutti “figli del nostro tempo”, ma cosa è cambiato oggi nel rapporto tra genitori e figli?
In parte abbiamo già risposto, ma aggiungo che, quello che rispetto a qualche decennio fa è mutato radicalmente, è il bisogno dei genitori di proporre ai figli sempre nuovi stimoli, a volte dandone in dose superiore a quanto desiderato. Qui ritorno alla necessità di lasciare spazio anche alla noia, ai tempi morti e al sapersi gestire e organizzare. Oggi invece dopo la scuola proponiamo ai figli sport, musica, corsi di lingue, danza, eccetera. Con questo eccesso di offerta finiamo per provocare due effetti entrambi negativi: ansia o ridotta partecipazione emotiva rispetto alla vita che gli proponiamo. Galimberti la definisce psicoapatia. Ma più che insistere su ciò che è cambiato, io consiglio ai nuovi genitori di provare a sviluppare metodi educativi ben chiari e autorevoli. Un esempio? Eccolo. Abbiamo accennato al bisogno di dettare sin da subito delle regole che noi per primi dobbiamo rispettare, consapevoli che i figli prima di accettarle tenteranno con ogni mezzo di infrangerle o modificarle. È questo un meccanismo che i bambini tendono a praticare con lo scopo di “misurare” sino a dove possono arrivare. Comporta anche per loro uno sforzo, che risulta alla lunga positivo in quanto contribuisce a formare quello che possiamo definire un “muscolo per la vita”. Ma tornando alle regole, “prima”, se una veniva infranta, scattava immediata una punizione che poteva avere forme diverse, dall’essere sgridato e messo subito a letto, fino alla privazione di qualcosa di amato o desiderato. Adesso invece la prima vera regola da applicare è quella che cita il professor Gustavo Charmet, docente della scuola di Psicoterapia dell’adolescenza Arpad Minotauro di Milano, il quale sostiene che “i genitori ascoltano i figli non più per paura delle punizioni, ma per affetto”. Ed ecco allora che la punizione al ripetuto insistere nell’infrangere le regole dovrebbe essere quella di creare una distanza affettiva, evitando di rivolgere la parola al “colpevole”, naturalmente per un tempo mai troppo lungo, ma sufficiente a far nascere il senso di colpa, che definiamo, come già detto, dolore protetto. Questo, oltre a far comprendere l’errore, lo prepara al senso di responsabilità che spesso non siamo stati capaci appunto di insegnare.
Vorrei a tal proposito cogliere l’occasione per accennare a un fenomeno complesso e recente che prende il nome di Neet, parola che indica una categoria di persone di età compresa fra i 15 e i 29 anni che non lavora, non studia e non segue alcun percorso di formazione. Neet è un acronimo che sta per “Not (engaged) in Education, Employment or Training” e, secondo i dati forniti da Eurostat aggiornati al 2022, riguarda in Italia una percentuale pari al 19% di under 30 per un totale di circa 1,7 milioni di giovani. Come detto è un fenomeno complesso che abbisognerebbe di molto più spazio di quanto possiamo darne oggi, ma tra le cause di questo fenomeno possiamo citare i molti timori che la situazione attuale (guerre, epidemie, cambiamenti climatici e sociali, difficoltà nel trovare un lavoro stabile) genera nei giovani.
Calo demografico e Generazione G. Il basso numero della natalità è dovuto alla situazione sociale e alle difficoltà economiche, oppure i tempi che viviamo spingono i giovani verso diverse aspettative di vita nelle quali i figli non sono contemplati?
Oggi abbiamo un notevole livello di individualismo che rasenta il narcisismo e con questo l’assoluta necessità di procurarsi un effimero piacere, fatto spesso derivante dall’insoddisfazione rispetto a quanto abbiamo. E di ciò ne risente spessissimo la vita di coppia, sempre più esposta a rapidissimi sconvolgimenti. Questo, unito a quanto il mondo ci propone, può essere una chiave di lettura del fenomeno racchiuso nella domanda. Altra possibile chiave di lettura può essere ciò a cui abbiamo accennato in apertura d’intervista, vale a dire sapere in anticipo che con un figlio/a non saremo più né autonomi né indipendenti. E questo può essere sufficiente a far desistere dal mettere al mondo dei figli, dato che è doveroso ammettere che non necessariamente una buona qualità della vita, anche di coppia, prevede obbligatoriamente la presenza di una prole.
Il dottor Teglia ci ha parlato oggi di un tema cruciale, quello della genitorialità e di come esserlo oggi si debba collocare in un contesto molto diverso da quello delle generazioni passate. Un tema che partendo dalla “Generazione G” ci ha mostrato come, prima ancora di dare vita a nuovi esseri, sia essenziale “far nascere” una nuova consapevolezza e competenza genitoriale, quali sfide emergono e quali nuove competenze richiede questo mutato panorama, arrivando ad accennare a un fenomeno inquietante quale quello dei cosiddetti Neet che riguarda un numero altissimo di giovani. Un lungo viaggio attraverso i nuovi scenari e le sfide di un’epoca in costante cambiamento che spero sia stato di vostro gradimento.
Grazie per averci seguito anche oggi.
Enrico Miniati