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5 Settembre 2023Pubblichiamo un articolo di Stefano Boni già segretario generale Fit CISL Toscana fino al maggio 2021 e dopo e tutt’ora dirigente sindacale del dipartimento Trasporti e Infrastrutture della USR CISL confederale della Toscana.
Anche in Italia, seppur timidamente, si comincia a parlare di ridurre l’orario di lavoro settimanale: cioè passare dalle classiche 40 ore su cinque giorni alle 32 su 4 giorni a parità di salario.
Non è una favola; già in alcuni Paesi Europei si sta diffondendo, anche se in maniera molto contenuta, come in Francia, Germania, Danimarca, Norvegia e Svizzera mentre nel Regno Unito siamo andati più avanti attraverso una vera e propria sperimentazione di massa per circa 6 mesi, coinvolgendo circa 90 aziende e quasi 3.500 lavoratori, ai quali è stato proposto di lavorare 4 giorni alla settimana continuando a ricevere lo stesso stipendio. Un esempio, a cui guardare anche in Italia, è il recente accordo con i sindacati e Banca Intesa, dove a parità di salario, si lavora 4 giorni su nastro lavorativo con un orario inferiore di 90 minuti rispetto a quello prestato in precedenza.
Insomma siamo nel mezzo ad una svolta culturale rispetto al mondo del lavoro e a quello che fino ad oggi ha significato. Un nuovo modo di concepire il lavoro e il tempo libero, che investe milioni di persone e ridisegna lo status sociale con forti cambiamenti; questo processo deve assolutamente coinvolgere non solo i lavoratori e i sindacati ma anche le aziende, e insieme devono diventare i protagonisti del cambiamento e del nuovo modo di concepire il futuro della società che ci circonda.
E’ chiaro che servirà un approccio partecipativo, che, attraverso la condivisione di nuove regole, provi a sperimentare diverse realtà professionali, tenendo conto delle specificità territoriali e anche dell’Italia stessa che è diversa dai Paesi europei, andando ad analizzare le criticità e le possibili positività, sia per le imprese che per i lavoratori.
La sperimentazione a cui oggi possiamo fare riferimento e quella del Regno Unito che non può certo essere esaustiva ma solo una base di riflessione, dove per esempio risulta che il gradimento aziendale sia buono e la produttività, in alcuni casi, è aumentata oppure rimasta invariata. Da registrare anche un leggero miglioramento dei ricavi aziendali, con una diminuzione del tasso di assenteismo e di lavoratori che hanno preferito cambiare azienda. Anche dal punto di vista dei lavoratori ci sono state delle risposte positive come un miglioramento sulla salute e sulla qualità della vita, sul benessere in maniera generale, sia fisico che mentale, con una riduzione dello stress e una riduzione di problematiche derivanti dal riposo e dal sonno. Inoltre si è riscontrato anche un ritorno anche dal punto di vista ambientale con minori consumi di elettricità, ma anche di gas di scarico prodotti dalle auto utilizzate per gli spostamenti. Sicuramente vi è anche un ritorno di benessere sulle famiglie, che possono contare su una maggiore disponibilità di tempo libero complessivo, con uomini che si dedicano sempre più alla cura dei figli e ai lavori domestici.
Oggi dobbiamo guardare anche i recenti cambiamenti imposti dalla pandemia, dove sono stati accelerati i processi tecnologici; in particolare mi riferisco alla modalità di lavoro smart working, che ha alleviato parecchi problemi sia alle lavoratrici che ai lavoratori e alle aziende che hanno risparmiato indubbiamente sui costi di riscaldamento, mensa, trasporti e che oggi ormai è diventata una modalità lavorativa consolidata e non solo nelle aziende più grandi, attraverso accordi specifici con i sindacati sia a livello territoriale che nazionale.
È necessario avere coraggio e avviare percorsi per gradi e in modo sperimentale coinvolgendo in primis le aziende pubbliche, cercando di capire le esigenze dei lavoratori e quindi elaborando modelli su misura che tengano conto delle specificità della produzione e dell’azienda. Naturalmente non basta tenere conto della sola variabile umana ma è necessario fare degli investimenti mirati in nuove tecnologie e coinvolgere le maestranze senza nessun processo calato dall’alto per un lavoro sostenibile, libero e produttivo; solo dopo, con i risultati in mano, si può decidere dove intervenire e in quali settori si possono adottare i nuovi modelli.
L’Italia non deve essere da meno; anche se la nostra realtà è molto diversa da quella europea, oggi è importante parlarne, creare le condizioni sociali e culturali per questo nuovo modo di lavorare, che affronti nuovi modelli organizzativi partendo dalla formazione continua, che guidi le trasformazioni mettendo al centro la dignità del lavoro, la buona occupazione e lo sviluppo del paese insieme alle aziende.
Il tutto deve servire ad aprire una nuova discussione fra lavorati, sindacato e imprese e, in quest’ottica attraverso la partecipazione attiva dei lavoratori a tutti i livelli dell’impresa, compresa quella nei consigli di amministrazione, è possibile ripensare il tempo libero, i nuovi orari di lavoro, ricercando nuovi equilibri e maggiori risultati sul piano della qualità della vita, senza appesantire di nuovi costi le aziende, né diminuire la produttività. Non dobbiamo pensare ad una riduzione di orario generica, ma alla necessità di rendere il lavoro più accettabile, sostenibile e flessibile rispetto alle esigenze delle famiglie per poter accudire i figli e gli anziani: insomma, davanti alla società che cambia, bisogna essere, in maniera pragmatica, disponibili a discutere ed accettare nuovi modi di lavorare e di vivere il futuro.
Stefano Boni