Presentato il film ‘Che bella storia la vita’, inno alla toscanità
20 Maggio 2023Alla scoperta dell’olio di qualità
21 Maggio 2023In moltissimi individui esiste uno stretto legame fra la loro singola identità e il senso di comunità. La prima è l’idea, o sarebbe forse più appropriato dire l’immagine che una persona ha di sé e del proprio “io”, mentre la seconda rappresenta il “noi” contenuto nel termine stesso di comunità, ed esprime il sentimento che ciascun membro ha nel sentirsi parte attiva di un gruppo, nell’essere importante per gli altri, e la fiducia che nutre nel ritenere che i bisogni di ciascuno possano essere appagati grazie al comune impegno. Tutto questo lo possiamo riassumere in un unico termine: appartenenza.
Ed è di questo che parliamo oggi con il dottor Sergio Teglia.
Tralasciando quanto ho scritto sopra, vuole darci una definizione più completa del termine “appartenenza” e di cosa esso rappresenta per gli esseri umani?
È un argomento che riguarda sia la psicologia che la sociologia, e per prima cosa occorre dire che l’appartenenza è un sentimento ed i sentimenti, a differenza delle emozioni, sono di gran lunga più duraturi anche se meno intensi. In essa, assieme alla percezione del nostro valore, possiamo trovare anche una sensazione di inclusione data dal sentirsi parte di qualcosa. L’appartenenza ci fornisce la definizione della nostra identità individuale oltre alla sicurezza derivante dal far parte di un contesto all’interno del quale è possibile trovare affetto e protezione, come avviene nel gruppo sociale primario: la famiglia.
Sentimento quindi che inizia a formarsi sin dalla più tenera età. Ma quanto è importante il senso di appartenenza nella nostra vita?
Direi che è fondamentale. Teniamo conto che moltissimi studi affermano che l’appartenenza a un gruppo fornisce, oltre a un senso di protezione, anche gli strumenti per resistere in maniera maggiore alle inevitabili frustrazioni della vita, la resilienza, assieme alla capacità di meglio adattarsi al mutare delle situazioni, il coping.
Inoltre non dobbiamo dimenticare che nelle prime fasi della vita di un bambino, fino a circa sei anni di età, è fortissimo il senso di identificazione nel genitore dello stesso sesso – in psicoanalisi viene definita identificazione primaria – che quasi sempre lo spingerà poi a proseguire nella vita sulla base dei valori, parametri e insegnamenti ricevuti.
Venendo a quello che è l’argomento “guida” dei nostri incontri – stare bene con se stessi – sentirsi parte di un gruppo, qualsiasi possa essere l’interesse o la motivazione che unisce, contribuisce ad alzare il livello di autostima?
Assolutamente sì. Stare in un gruppo, oltre ad aumentare, come abbiamo appena detto, quella che possiamo definire la nostra resilienza, fa sì che anche l’autostima ne tragga beneficio. Questo deriva dal sapere che è dal gruppo, dalla sua forza e dal sostegno che da questo puoi ricevere che è possibile ammortizzare i problemi e superare all’occorrenza momenti di difficoltà e fasi critiche.
Appartenenza, famiglia, volontariato, rapporti umani, voglia di dare senza voler ricevere, inclusione, partecipazione, rappresentano secondo lei le diverse facce di una stessa medaglia?
Domanda interessante e complicata allo stesso tempo, perché occorre dire che non tutte le appartenenze rappresentano un valore positivo, dal momento che esistono anche quelle che possiamo considerare a rischio, come l’appartenenza in adolescenza a “gruppi devianti”. Tornando poi a parlare di famiglia, oltre a quanto abbiamo detto, esiste un altro aspetto che vorrei toccare, anche se brevemente, ed è quello dei così detti “bambini invisibili”, cioè i figli di coloro che hanno ucciso il/la compagno/a. Abbiamo sfiorato pocanzi l’argomento dell’identificazione primaria, accennando al fatto che nella prima infanzia si cerca di identificarsi con uno dei genitori. Questo avviene anche nei casi di uccisione di uno dei due da parte dell’altro. Nonostante tutto il figlio, che purtroppo spesso passerà gran parte della sua vita alternandosi tra “briciole d’affetto” date da parenti o affidatari, desidera ardentemente avere il contatto, al limite anche in carcere, con il genitore rimasto. Di questo aspetto, emozionale e legislativo, si è occupata per gran parte della sua esistenza la psicologa e criminologa professoressa Anna Costanza Baldry.
Bambini e problemi dei genitori che in alcuni casi costringono a dolorose separazioni. Anche l’affido familiare può definirsi una forma di appartenenza?
Precisiamo subito che l’affido non è assolutamente da confondere con l’istituto dell’adozione. L’affido è temporaneo, al massimo dovrebbe durare due anni, periodo nel quale i vari Servizi competenti tentano di recuperare, ove possibile, le competenze genitoriali della famiglia biologica d’origine. In questo lasso di tempo il compito degli affidatari assume aspetti di notevole difficoltà in quanto molto spesso occorre supplire a carenze di vario genere, affettive e comportamentali, senza però mai dimenticare che il loro compito primario è favorire il rientro del minore presso i propri genitori. È questo il caso in cui è possibile parlare di una doppia appartenenza: famiglia d’origine e famiglia affidataria.
Nell’affido, un aspetto fondamentale che occorre sia sempre presente per tentare di dare una soluzione positiva al problema, il rientro del minore in famiglia, è quello del lavoro in perfetta sinergia tra tutti gli “attori” interessati, vale a dire il bambino che abbisogna di un costante monitoraggio eseguito da personale specifico quale ad esempio psicologo, neuropsichiatra, assistente sociale, gli affidatari con l’assistenza costante dei Centri Affido, i genitori naturali ai quali occorre fornire un appropriato sostegno psicologico e strumenti per superare lo stato di difficoltà, oltre a eliminare in loro la sensazione che il/la figlio/a sia stato tolto per “darlo ad altri”, cosa che spesso scatena una forma di conflittualità nei confronti della famiglia affidataria.
Enrico Miniati