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9 Aprile 2023“Iniziamo una nuova rubrica su Arteventinews, si chiamerà “Prendersi cura di sé… per stare meglio con sé stessi e con gli altri”. La rubrica sarà tenuta dal dottor Sergio Teglia, psicologo, psicoterapeuta già responsabile del “Progetto Genitori” Asl Toscana Centro, della “Scuola per Genitori” Asl Toscana Centro, docente presso l’Università del tempo libero di Pistoia, presso l’Università Popolare sempre di Pistoia, collaboratore della rivista “Società e comunicazione” e… molto altro ancora
Il nostro collaboratore Enrico Miniati intervisterà il dottor Teglia, affrontando vari aspetti della vita di relazione, che come è indicato nel titolo, vogliono aiutare a ‘stare meglio con sé stessi e con gli altri‘.
Siamo veramente lieti di poter offrire questo contributo ai nostri lettori e ringraziamo il dottor Sergio Teglia per la sua disponibilità e naturalmente anche alla preziosa collaborazione di Enrico Miniati.” Il Direttore
Prendersi cura di sé… per stare meglio con se stessi e con gli altri.
A cura di Enrico Miniati.
Prende il via oggi una serie di incontri con uno specialista conosciuto e apprezzato qual è il dottor Sergio Teglia, psicologo, psicoterapeuta.
Quale sarà il tenore dei nostri incontri e del perché è stato scelto quel titolo per la rubrica sarà oggetto della prima domanda che gli farò. Seguiranno poi, oggi e ogni volta che ci incontreremo, quattro, cinque domande al massimo, in modo da dare agli incontri un po’ di “snellezza”.
Cheryl Richardson, coach motivazionale di personaggi di spicco nel panorama americano ha detto: «Ricordatevi di prendervi cura di voi. A volte si è così occupati a prendersi cura degli altri che ci si dimentica di sé». Dottor Teglia, è veramente così?
È doveroso fare inizialmente una precisazione tra quello che è il curare e il prendersi cura di sé. Curare fa riferimento all’atto biologico della persona, alla malattia, prendersi cura fa riferimento invece al lato emotivo, empatico, alle relazioni personali. Quindi questa rubrica rimanda al tentativo che faremo di far sì che la persona si riappropri del dialogo interiore, dell’ascoltarsi, del guardarsi dentro, del conoscere di cosa ha bisogno, del prendere coscienza che tutti abbiamo limiti e difetti ma anche pregi e qualità. Il tutto per migliorarsi, e conseguentemente migliorare il rapporto con gli altri. Socrate parlava già secoli fa del “dialogo interiore”. Ecco, noi vorremmo provare a riappropriarsi di questo dialogo. Ed ecco il nostro prendersi cura di sé.
Quindi noi daremo suggerimenti, consigli, oppure…?
Noi faremo di volta in volta dei ragionamenti sugli argomenti che affronteremo e proveremo a dare a chi ci leggerà alcuni spunti su cui riflettere. Anche se qualche volta potrà accadere che, con la massima umiltà compaiano anche qualche indicazioni più operative di tipo sociale, psicologico e relazionale. Quindi nessuna indicazione terapeutica, ma piuttosto l’invito a fare ciò che un tempo si faceva specialmente al termine di una giornata: fermarsi a pensare, a fare un bilancio, e, cosa fondamentale, a parlare con se stessi.
Ma esistono delle conseguenze legate al non prendersi cura di se stessi e a dimenticarsi del proprio “io”?
Assolutamente sì. Una, ad esempio, è la tendenza con il tempo a isolarsi dagli altri, a vivere in un mondo virtuale, spesso legati ai cd “social”. Oppure accade che si inizi a rimuginare sui fatti del passato, rinvangando rancori o sensazioni di incapacità pregresse. O ancora ad avere dubbi e paure sul futuro sviluppando angosce e sensi di inferiorità. Il tutto perdendo così di vista il nostro presente, lasciandocelo sfuggire.
Quasi senza volerlo la sua ultima risposta ci ha introdotti nell’argomento che abbiamo scelto per la nostra odierna riflessione. Sfiducia nel futuro “grazie” anche ai social che amplificano a dismisura i fatti spesso senza alcuna cognizione di causa e la paura incombente e reale per ciò che potrebbe accadere a noi e ai nostri cari. E parlo della guerra alle “porte di casa”. Quanto ci tocca in termini di paure, insicurezza, sfiducia nel futuro un conflitto, anche se questo non ci vede coinvolti direttamente?
Faccio mio ciò che ha sempre detto Gino Strada, cioè che essere contro la guerra, ogni guerra, è un obbligo etico e morale. Senza ovviamente dimenticare che nel caso di cui parliamo esiste sicuramente un aggredito e un aggressore, io sposo pienamente ciò che lui ha più volte affermato: ogni guerra non ha mai un vinto e un vincitore, ma soltanto dei morti e dei feriti. Detto questo, alcuni importanti studi hanno certificato che un conflitto di così grande rilevanza costituisce un’enorme fatica emotiva, soprattutto per le categorie dei più fragili e dei più vulnerabili. A questo nuovo stress si aggiunge però un ulteriore fattore negativo, dato che questa guerra arriva subito dopo un lungo, durissimo periodo di pandemia che ci ha messi tutti a dura prova, soprattutto psicologica. Ecco perché anch’io mi sento di confermare che in questo momento il rischio principale, badiamo bene da non sottovalutare assolutamente, sia quello della continua fatica emotiva.
Siamo tutti, o quasi, contrari alla guerra. Però, sempre quasi tutti, non possiamo esimerci dal parteggiare per uno dei due contendenti. Perché avviene questo?
Perché abbiamo bisogno di meccanismi di difesa e il proiettare la colpa di ciò che accade su qualcuno ci fa stare meno male. Quando parteggiamo senza essere direttamente coinvolti è più facile e in qualche modo ci tiriamo fuori. Quando poi in realtà questa guerra la perderemo tutti.
Che la guerra sia del tutto inutile è un concetto chiarissimo e anche semplice da fare proprio. Eppure…
In teoria sembrerebbe così, in pratica occorre declinarlo un po’. Noi dobbiamo arrivare a comprendere che l’unico modo per avere il benessere individuale è il perseguire quello collettivo evitando che un conflitto sia scatenato dal comportamento egoistico di pochi. Nel 1700 Rousseau, grande filosofo, diceva: «Per conservare la pace c’è bisogno di un grande sacrifico collettivo. Per sprofondare nella guerra basta la volontà di potenza di alcuni individui». Ricordiamoci che la volontà di potenza era un assioma anche di Alfred Adler, noto psicoanalista del secolo passato, che teorizzava il concetto che l’individuo per realizzarsi ha bisogno di affermarsi. Purtroppo in questa guerra abbiamo l’egoismo di chi si dimentica di appartenere a una comunità, che funziona e sta bene se tutti stanno bene.
Le immagini dei conflitti che giornalmente siamo “costretti” a vedere sono terribili. La morte, la violenza, le stragi e le distruzioni quali danni ci procurano, e come si insinuano nei nostri pensieri più reconditi?
Una recentissima ricerca scientifica condotta su un campione di 5.000 giovani tra gli 8 e i 19 anni intitolata “La salute mentale dei giovani tra pandemia e guerra” ha affermato come sia aumentata terribilmente un’emozione: la rabbia. Rabbia verso il mondo esterno, ma, purtroppo, anche verso se stessi. È aumentato l’autolesionismo, che è un modo per sfogare il malessere che i giovani sentono. Autolesionismo che può spingersi sino alle estreme conseguenze. Sono inoltre aumentate la tristezza, la tendenza all’isolamento sociale, la sfiducia nel futuro. E allora, per non scadere con la nostra chiacchierata in quello che può sembrare il telegiornale della notte, occorre proporre anche delle possibili alternative. Una è l’investire fortemente nei sentimenti, cosa che inevitabilmente ci porta a prenderci cura anche di noi. Investire nella solidarietà, nell’altruismo, nella cooperazione. Ma, al limite, anche nel prenderci cura di un animale, di una pianta o di un giardino, perché l’investire nei sentimenti rappresenta sempre il futuro. E poi riscoprire il piacere dell’amicizia. E raccontare non solo ai nostri figli, ma ai giovani tutti, il piacere della speranza, dimostrandogli concretamente che ci facciamo carico della loro sofferenza, standogli vicino e facendo le cose assieme, applicando cioè quello che la psicologia ha ormai definitivamente affermato, che si educa con l’esempio, non con le parole. Un Papa, Paolo VI ha detto che i giovani ascoltano molto più i testimoni che i predicatori. Diamo quindi testimonianza di speranza anche attraverso le piccole cose di tutti i giorni.
Chiudo con un’ultimissima domanda: l’impatto psicologico della guerra è particolarmente evidente su soggetti altamente vulnerabili e immaturi come i giovanissimi. Come si può spiegare ai bambini una guerra e le morti che ne sono una delle conseguenze?
Partiamo da un principio per me basilare che è quello che nei momenti conviviali non si guarda niente ma si parla. Poi, sappiamo che ai bambini non sfugge quasi nulla, e quindi a proposito della guerra, con quelli piccoli può essere importante a tranquillizzarli dire loro che tutto questo è lontanissimo da noi e che qui non succederà mai. Per gli altri, quelli della fascia dai 6 agli 11 anni ammetto che è più complicato. Occorre fare con i figli ciò che una grandissima pedagogista, Maria Montessori affermava, e cioè che non si può educare i figli alla pace proponendo loro sempre la competizione, come può avvenire anche ad esempio nel mondo dello sport. Non si deve instillare nei ragazzi l’idea che i migliori sono soltanto quelli che vincono. Tendere a migliorarsi come individuo va benissimo, così come mantenere gli impegni, dare segnali di altruismo o di solidarietà verso i compagni, questo è educare alla pace. Insegnare il rispetto per gli altri, fermarsi con l’auto per far attraversare un pedone, togliere dall’asfalto un animale ferito, significa seminare il germe dell’educazione alla pace, Questi sono i primi insegnamenti che abbiamo il dovere di dare ai giovani, come il non farli mai sentirsi soli, ma autonomi. E chiuderei questo nostro primo incontro dando ai nostri lettori un ulteriore spunto di riflessione citando Umberto Galimberti «Noi viviamo se qualcuno ci guarda».