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1 Luglio 2021
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2 Luglio 2021Accade che i grandi avvenimenti – come quello, inedito per distruttività, dell’attuale pandemia – ci investano in prima persona, sovrapponendo vissuto privato e storia collettiva: questo pensavo quando ho letto la dolorosa notizia della scomparsa, avvenuta lo scorso aprile per complicazioni da Covid-19, della Prof.ssa Elena Pulcini, con la quale ho discusso, ormai dieci anni fa, la tesi di Laurea triennale presso la facoltà di Filosofia dell’Università di Firenze.
Alla memoria della Prof.ssa Pulcini è stata meritoriamente dedicata, dall’Università Vasco Gaiffi, una conferenza – svoltasi il 10 giugno scorso a Pistoia e già segnalata su queste pagine – intitolata Per Elena Pulcini. Riflessioni sulla cura del mondo.
In questo periodo, ho dunque avuto modo di ritornare proprio sull’opera della Prof.ssa Pulcini, pubblicata nel 2009, La cura del mondo, Paura e responsabilità nell’età globale, richiamata nel titolo della conferenza sopra citata. Lungi da pretese di scientificità accademica o di esaustività concettuale, è sorta l’esigenza di scrivere in merito alla forte consonanza e pregnanza di quanto trattatto in questo testo, con temi e situazioni che da ormai quasi un anno e mezzo a questa parte costituiscono, in varia misura, il sottofondo delle nostre vite, nonché del dibattito pubblico. A questo proposito, mi hanno colpito in particolar modo, le argomentazioni ruotanti attorno al tema dell’individualismo illimitato.
Alcuni autori, tra i quali Gilles Lipovetsky, hanno parlato di una vera e propria “mutazione antropologica”, per definire il passaggio “dall’individualismo «limitato» della prima modernità all’individualismo «illimitato» postmoderno”. Infatti, pur contendendo già in nuce “la tendenza all’illimitato”, “i presupposti antropologici dei due grandi modelli sociali e politici della modernità” – vale a dire il “Prometeo hobbesiano”, “individuo ansiosamente preoccupato di un futuro ignoto e perennemente incerto” e “l’individuo acquisitivo descritto da Adam Smith“, “teso al possesso e all’accumulazione della ricchezza e che sancisce il passaggio alla fase espansiva della modernità capitalistica e dell’individualismo possessivo” – implicavano intrinsecamente il costante ricostituirsi di un limite, che salvaguardasse dal conflitto e dal disordine l’ordine socio-politico di riferimento e, di conseguenza, ne preservasse i relativi benefici.
Entrambe ispirate “da una ragione strumentale che spinge l’individuo a una equilibrata mediazione tra l’interesse soggettivo e l’interesse collettivo”, tali dinamiche di ridefinizione di un limite sono evocate all’interno di due campi concettuali differenti. Si tratta, infatti, di un contenimento della “pulsione all’illimitato” di natura politica in Hobbes (“in nome della sicurezza di un potere politico repressivo”) ed etica in Smith (“in nome del desiderio di riconoscimento che spinge l’individuo a condotte etiche «prudenziali» tese ad assicurare lo svolgersi di una concorrenza socialmente sostenibile ed economicamente fruttuosa”).
Oggi ci troviamo invece di fronte ad una forma di individualismo illimitato, frutto di un processo degenerativo avente le proprie radici in quelle che possiamo chiamare le “promesse tradite della modernità”. Tramontata l’idea – potremmo dire l’utopia – di un homo oeconomicus, capace di “perseguire i propri interessi” e “controllare le proprie passioni”, quella oggi protagonista della scena sociale è “una soggettività dai contorni fluidi e incerti, ancorata all’immediatezza del presente e ai piaceri dell’effimero”. Tale soggettività è inoltre “caratterizzata da un rapporto parassitario con il mondo, ridotto a immensa fabbrica di merci” e “preda di paure e insicurezze e tendente all’entropia, e allo stesso tempo animata da una vocazione all’espansione illimitata dei propri desideri e delle proprie pretese che la rende cieca ai desideri e alle esigenze dell’altro sa sé”.
Fin troppo intuitiva e conseguente la deduzione che un tale individuo atomizzato, desocializzato, narcisista sia il più inadatto a dare un contributo attivo alla risoluzione – e persino a comprendere fino in fondo le implicazioni – di una situazione emergenziale come quella pandemica, richiedente senso di responsabilità e capacità di costruire un orizzonte di senso capace, per l’appunto, di includere “l’altro da sè”.
Le situazioni di emergenza possono però anche portare delle modifiche al nostro modo di vedere il mondo e relazionarci con in nostri simili. A questo proposito, in una intervista di maggio 2020 alla rivista Doppiozero, relativamente alle conseguenze della pandemia, la Prof.ssa Pulcini sosteneva che “la paura, se reagisce a un vero pericolo, funziona come la passione del limite, quella che risveglia la memoria della nostra vulnerabilità umana troppo umana, e rompe il mito prometeico di una libertà e di un potere senza limiti. […] abbiamo riscoperto l’esistenza dell’altro con uno stupore e perfino un’euforia non priva di retorica, come sempre accade con il ritorno del rimosso.”
In un contesto sociale, quello dell’individuo illimitato sopra citato, nel quale al bisogno di sicurezza si è spesso risposto con “la regressione endogamica e aggressiva della politica (dei singoli Stati e della stessa Europa al suo interno) sostenuta dal revival immunitario di cittadini sempre più motivati da passioni negative come la paura persecutoria proiettata sull’altro, e il risentimento vendicativo che sfocia nella violenza”, in occasione del pericolo pandemico “abbiamo visto riaffacciarsi momenti corali e solidarietà artigianali, come i canti collettivi dai balconi, gli applausi a chi ci cura, la spesa portata dai più giovani agli anziani del condominio. Un’àncora a cui è bene restare saldamente legati.”
In una intervista di circa 2 anni fa al Foglio, la Prof.ssa Pulcini rispondeva, ad una domanda riguardo alla possibilità della filosofia di “incidere” nell’attuale contesto sociale, auspicando “una filosofia per il mondo; che in primo luogo recuperi l’originaria alleanza con la politica, intesa come preoccupazione per il destino della polis, come nella Repubblica di Platone; e che in secondo luogo sia disposta a riflettere in presa diretta con l’attualità. Insomma una “filosofia d’occasione”, per riprendere l’espressione di Anders – Günther Anders, filosofo tedesco la cui riflessione è spesso richiamata in La cura del mondo, NdR – che sappia non solo continuare tenacemente a porre domande in un mondo che sembra annegare in una oppiacea indifferenza e nella banalità dell’ovvio, ma anche porre le domande giuste: quelle cioè che sanno opporsi alla manipolazione della verità, sempre più diffusa, per cogliere le trasformazioni in atto, individuare di volta in volta i veri pericoli, interpretare e dare la priorità agli eventi simbolicamente rappresentativi.”
Nell’intervista al Foglio, la Prof.ssa Pulcini parlava anche della necessità di una “filosofia vitale che non tema di contaminarsi anche con altri linguaggi (letteratura, psicoanalisi, cinema) laddove il concetto e l’argomentazione non sono (più) sufficienti.” A proposito di questa concezione interdisciplinare del sapere filosofico, ricordo con nostalgia i seminari organizzati dalla Prof.ssa in occasione dei quali, io e i miei compagni di Università, abbiamo avuto modo di vedere pellicole quali Eyes Wide Shut e Mulholland Drive, classici come Viale del tramonto, e particolarità come il film saggio La Societé du spectacle di Guy Debord.
Alla fine di questo breve contributo, che intende essere un piccolo omaggio al lavoro intellettuale e alla memoria della Prof.ssa Pulcini, possiamo soltanto sperare che le autorità e, più in generale, il dibattito pubblico sappiano fare tesoro di tali risorse del pensiero, per usarle come strumenti che ci conducano oltre l’eterno, ottundente presente nel quale siamo spesso imprigionati.
Jacopo Golisano