
La mostra personale di Michelangelo Consani alla Galleria ME Vannucci di Pistoia
30 Aprile 2021
“Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba” al Museo del Tessuto dal 22 maggio 2021
30 Aprile 2021Omar (interpretato da Giuseppe Dave Seke) è un ragazzo italiano di seconda generazione di origini senegalesi, lavora come rider consegnando pizze e vive nel quartiere Barona di Milano, “barrio” multietnico dove la vita (almeno per come ce la racconta la serie) non è semplicissima.
Ben presto il protagonista scoprirà di avere un superpotere, quello dell’invisibilità, e, come logico che sia in queste situazioni, anche dei (super)cattivi da combattere.
“Zero”, nuova miniserie in tutti sensi (anche per la durata degli episodi, 20-25 minuti l’uno) di Netflix, è sulla carta un prodotto estremamente interessante per almeno tre motivi: racconta, attraverso l’uso concreto e metaforico dell’invisibilità, realtà che esistono ma che non vengono messe in scena con grande frequenza dai nostri sceneggiatori; è di fatto una produzione di un genere, quello supereroistico, altrettanto poco frequentato dalle nostre parti (salvo per i casi, dai risultati alterni, di “Lo chiamavano Jeeg Robot” e “Il ragazzo invisibile”); si inserisce in un nuovo filone della stessa Netflix Italia che ha in programma di spostarsi, anche, verso la realizzazione di serie composte da episodi dalla durata sempre più breve.
Ma com’è questa “Zero”? Sulla carta, come detto, estremamente intrigante e anche nella resa si possono trovare alcune cose interessanti (il ritmo di scrittura e montaggio, l’aspetto visivo complessivo, la colonna sonora) che probabilmente le avranno permesso di balzare in poco tempo al n.1 nella classifica italiana dei più visti sulla piattaforma.
I problemi, però, ci sono e sono molti.
Facciamo qualche esempio (senza svelare troppo dello sviluppo narrativo): nel primo episodio il protagonista resta “prigioniero” di un appartamento in cui è a fare le sue consegne, dopo che la ragazza che lo occupa e il suo ragazzo sono usciti infuriati lasciandosi la porta chiusa alle spalle. Pochi minuti dopo la giovane rientra, scopre il protagonista sul divano di casa e, con una rapidissima dinamica, lo invita a restare per tutta la notte, senza (peraltro) che quest’ultimo debba rendere conto più a nessuno della sua interruzione di servizio nelle consegne.
La stessa scoperta dell’invisibilità è trattata in maniera piuttosto “particolare” e la prima volta che il protagonista scompare nel nulla, mentre è inseguito da un coetaneo armato, è il primo a non accorgersene, svegliandosi (nella sequenza successiva) nel letto di casa come se nulla fosse successo.
A questo si aggiungono, purtroppo, dei dialoghi stereotipati, luoghi comuni del genere un po’ troppo marcati e scelte che destano delle perplessità (i personaggi che si rivelano “cattivi” parlano tutti con accento meridionale), oltre a un parco attori volutamente alle prime armi ma purtroppo piuttosto acerbo.
Antonio Dikele Distefano, dal cui libro (“Non ho mai avuto la mia età”) è tratta la serie e di cui lui stesso è co-sceneggiatore, insieme peraltro a Menotti di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, ha dichiarato di essersi ispirato, anche, agli anime giapponesi e a film con personaggi invisibili e, forse, è giusto guardare a questa serie con queste consapevolezze.
Ridimensionandone i difetti e accogliendone la superficialità narrativa con quel benevolo senso di leggerezza che, probabilmente, gli sceneggiatori volevano portare nelle nostre case.
Stefano Cavalli