Quando l’anno scorso Morgan, sul palco del Festival, cambiò le parole del testo della canzone che cantava con Bugo per offenderlo, per giorni l’Italia si interrogò su cosa avesse scatenato quella reazione, su quali fossero i motivi del litigio tra i due. I problemi, allora, erano quelli e in pochi si potevano immaginare che una pandemia globale, che avrebbe investito il nostro Paese più di altri, era praticamente alle porte.
Un anno e qualche giorno dopo “Sanremo” è tornato e si è consumato tra le solite discussioni. Ma cosa resterà di questa edizione senza pubblico (in sala)?
Sicuramente la lezione che per quanto tutto possa cambiare, “Sanremo” resta uguale a sé stesso, spettacolo nazionalpopolare in grado (anche) di normalizzare l’eccezione (Achille Lauro e i suoi show), di appiattire a un livello elementare il dibattito sul genere sessuale e musicale, di provocare discussioni con chi e fra chi non ne ha visto magari nemmeno un minuto.
Ma è anche lo spettacolo che pur ringiovanendo, nella selezione artistica ancor prima che da un punto di vista di scrittura e regia, è in grado di rendere già classici (perché già “Campioni” secondo la selezione) musicisti praticamente al primo disco.
La vittoria dei Maneskin, che fanno il “rumore” richiesto l’anno scorso da Diodato, così fuori dagli standard sanremesi, non è la rivoluzione rock della scena musicale italiana di cui qualcuno ha parlato.
È soltanto l’eccezione che, ancora una volta, “Sanremo” è riuscita, bontà sua, a rendere normale.
Stefano Cavalli