La prima volta che ho sentito il nome di Kim Ki-Duk era il settembre del 2004 e io mi trovavo per la prima volta nella mia vita al Festival del Cinema di Venezia sulle tracce di Quentin Tarantino, che quell’anno faceva da padrino alla rassegna “Italian Kings of B’S”, dedicata ai registi “di genere” del nostro cinema italiano.
La ricerca andò molto bene (ebbi la fortuna e il piacere di assistere alla proiezione di “Quel maledetto treno blindato” di Enzo G. Castellari, ispirazione per “Bastardi senza gloria”, con Tarantino seduto davanti a me) ma, appunto, dicevamo di Kim Ki-Duk.
In quell’edizione, il direttore della Mostra dell’epoca, Marco Muller, ebbe l’idea di presentare come film a sorpresa “Ferro 3”, probabilmente il titolo più celebrato del regista sudcoreano, che proprio grazie a quella pellicola ebbe la sua consacrazione definitiva nel nostro Paese.
Io, proprio perché con la testa ero altrove, me lo persi anche se quel titolo “strano”, di cui tutti peraltro parlavano benissimo, mi risuonò per tutto il tempo che rimasi alla Mostra.
Poi, per le mille ragioni che ci portano a seguire certe cinematografie rispetto ad altre, il cinema di Kim Ki-Duk non si incrociò per anni nelle mie visioni, fino a quando una notte d’estate (controllando, proprio per scrivere questo pezzo, ho visto che era il 14 agoste del 2011) quello splendido programma di Rai3 che è “Fuori Orario” programmò il suo “Arirang”, premiato quell’anno al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard.
Era iniziato da poco e non avevo la più pallida idea che si trattasse di un film di Kim Ki-Duk, né che la persona davanti alla macchina da presa fosse proprio lui. “Arirang” è una videoconfessione che mi rapì letteralmente, lasciandomi inchiodato fino a tardi davanti allo schermo del televisore e che, oggi come quasi dieci anni fa, può essere la chiave di accesso per entrare nella testa di questo straordinario regista.
Dentro c’è tutto. Vita, morte, dolcezza, disperazione, oltre a una riflessione sul senso dell’arte cinematografica, secondo la prospettiva unica di Kim Ki-Duk.
Lo odierete o lo amerete, di certo è un ottimo modo per ricordarlo ora che è arrivato a prenderlo la morte che, per usare le parole che lui stesso usa nel film, “è una porta che si chiude, delle luci che si spengono”.
Ciao Kim.
Stefano Cavalli