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La cosa che più mi affascina della collaborazione con la rivista Arteventinews, è la possibilità che ho, attraverso le mie interviste, di incontrare persone, non importa chi esse siano o cosa facciano, che spessissimo portano con sé una storia importante da ascoltare e da raccontare. Mariangela Maraviglia è senza ombra di dubbio una di queste.
Laureata in Lettere con una tesi in Storia della Chiesa, un Dottorato di ricerca in Scienze religiose presso la Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, ha insegnato per più di quarant’anni nella scuola italiana fino al 2017. Nel suo curriculum si legge anche un Magistero in Scienze religiose presso l’Istituto superiore “Beato Ippolito Galantini” di Firenze. È Membro del Comitato scientifico della Fondazione Don Primo Mazzolari e del Comitato di direzione della rivista della stessa. Membro anche del Comitato scientifico della rivista di Scienze sociali della religione «Religioni e Società», è iscritta all’albo dei giornalisti. Scrive saggi, biografie, articoli per riviste, monografie. Tra queste David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992), Morcelliana, Brescia 2016; Don Primo Mazzolari. Con Dio e con il mondo, Qiqajon, Magnano 2010; e l’ultimo Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri, Il Mulino, Bologna 2020.
Potete dunque ben immaginare come la mia timorosa richiesta di “rubare” un poco del suo tempo per poterla intervistare, abbia finito poi per diventare un affascinantissimo colloquio durato quasi tre ore. Arguta, gentilissima, disposta a parlare di tutto, tranne che di sé – quello che troverete lo ha detto quasi di controvoglia – ha saputo condurre il nostro incontro in maniera perfetta, facendomi sentire a mio agio anche davanti a un’esperta quale è lei in un campo, quello della religione e dei suoi grandi personaggi contemporanei, a me quasi del tutto sconosciuto. Ed ecco di seguito riportato, anche se purtroppo in estrema sintesi, qualcosa di quanto lei mi ha detto.
Come si trova il tempo per fare così tante cose? è stata la mia prima domanda.
Adesso mi è più semplice, dato che da qualche tempo ho lasciato l’insegnamento. Ma mi è sempre piaciuto continuare a studiare, anche mentre insegnavo. Anzi, confesso che l’interesse per lo studio è diventato più forte nel corso degli anni. Ritagliavo tempi di studio nel corso delle vacanze scolastiche e delle vacanze estive.
Perché la sua scelta di dedicarsi in maniera così appassionata allo studio delle Scienze Religiose? Da dove inizia questo suo percorso?
Da dove inizia non so bene, non credo di poterlo dire fino in fondo. E’ un interesse che mi porto dentro fin da quando ho memoria: la domanda sul senso profondo delle cose; il desiderio, l’attesa, il dubbio di Dio, di cui hanno parlato tantissimi filosofi, teologi, mistici, sono sentimenti che molti da bambini proviamo, che più adulti rintracciamo nelle parole di altri. La mia generazione ha fatto in tempo a ricevere un’educazione ancora cattolica, a contestare quelli che ci apparivano limiti e storture del cattolicesimo negli anni Sessanta e Settanta. Come molti della mia generazione mi chiedevo per esempio come dal Vangelo si potesse arrivare agli scandali ripetuti del rapporto della Chiesa con il potere, a quell’uso dissennato della ricchezza registrato anche di recente in alte sfere vaticane; rifiutavo un cattolicesimo tutto dottrinario e punitivo della bellezza, del corpo, della vita.
Ho partecipato a movimenti del cattolicesimo critico come le ACLI (Associazioni cristiane lavoratori italiani), negli anni settanta e ottanta realtà molto vive, anche a Pistoia, in cui ho incrociato figure, libri, pensiero e ho collaborato con il loro periodico nazionale, «Azione Sociale». Ho seguito comunità e gruppi a cui devo molto sul piano della formazione e dell’amicizia: la comunità monastica di Bose di Enzo Bianchi, padre Giovanni Vannucci e il suo eremo di San Pietro alle Stinche, la comunità di San Leolino a Panzano in Chianti, a Pistoia il Centro culturale Maritain, il gruppo Koinonia, il Centro Espaces “Giorgio La Pira”.
La religione, che da quanto mi ha appena detto ha accompagnato molto della sua vita, viene da lei studiata, analizzata e raccontata anche attraverso la vita e le opere di alcune delle più eccelse figure del cristianesimo contemporaneo. Cos’è che la affascina di questi personaggi?
La storia delle vite religiose mi interessa tutta, più in generale mi interessano tutti gli studi che attengono al religioso, a come l’uomo ha interpretato e nutrito una propria relazione con Dio nel passato e nel presente. Ricordo quanto mi hanno affascinato certe pagine di storici delle religioni come Mircea Eliade e Julien Ries. Ma mi appassiona anche la letteratura su Gesù, e negli ultimi anni gli studi sul Gesù storico. E poi figure come San Francesco, Teresa di Lisieux, grandi donne del Novecento come Simone Weil, Etty Hillesum, Raissa Maritain, Cristina Campo… diversissime tra loro… tutte donne che hanno un profondo sentimento di Dio.
Tra i suoi scritti, una parte importante la occupa Don Primo Mazzolari. Perché? Cos’ha di così affascinante o di “speciale”?
L’inizio di tutto è stata la ricerca di tesi. Fu il mio professore Luciano Martini, amico di padre Ernesto Balducci e direttore della rivista fiorentina «Testimonianze», che collaborava negli anni Settanta alla cattedra di Storia della Chiesa dell’università di Firenze, a suggerirmi don Primo Mazzolari perché, disse, «è stato un po’ il padre nobile di tutti i preti e laici oggi impegnati sul fronte del rinnovamento della Chiesa». Don Mazzolari (1890-1959) era stata una voce molto viva al suo tempo: grande predicatore, scrittore di libri, articoli, in cui trasmetteva il suo amore per il Vangelo, e il suo desiderio di una Chiesa povera e per i poveri, di una fede che non schiacciasse la persona ma l’aiutasse a vivere. Erano gli anni in cui la dottrina cristiana appariva un apparato di controllo delle coscienze, rischiava di opprimere piuttosto che permettere di fiorire all’umanità di ognuno. E poi l’appoggiarsi pesantemente alla classe politica al potere, l’accettare una prospettiva conservatrice invece di farsi voce di giustizia… Mazzolari contestava tutto questo, Vangelo alla mano. Uomo e prete di profonda fede. Poi, il mio lavoro di tesi fu pubblicato (Chiesa e storia in Adesso, Dehoniane, Bologna 1991) e iniziai a collaborare con la Fondazione Mazzolari. Ancora oggi con il Comitato scientifico della Fondazione continuo a ripubblicare gli scritti di Mazzolari in edizione critica, coopero alla rivista, partecipo a convegni. Nel novembre 2018 abbiamo presentato don Mazzolari ai delegati UNESCO di Parigi in un convegno internazionale dal titolo Il messaggio e l’azione di pace di don Primo Mazzolari (29 novembre 2018). Nel giugno 2017 papa Francesco aveva visitato la sede della Fondazione a Bozzolo (Mantova), il paese dove Mazzolari era stato a lungo parroco, riconoscendo il valore di questo prete che a suo tempo, come don Lorenzo Milani, fu emarginato come “disobbediente” della Chiesa. Se uno riesce ad andare oltre a un linguaggio che risente senz’altro dell’usura del tempo scopre nelle sue parole una grande freschezza evangelica e prima umana.
L’ultimo suo libro, Semplicemente una che vive, racconta invece di una figura di donna: Adriana Zarri. Teologa, giornalista, scrittrice, Adriana ha lasciato scritto molto e ha fatto scrivere molto, sia sulla sua figura che sul suo modo di vivere il cattolicesimo. Cosa l’ha spinta a parlare di lei?
Adriana Zarri, nata a San Lazzaro di Savena (Bologna) nel 1919 e morta nel suo ultimo eremo di Ca’ Sassino (Ivrea) nel 2010, è venuta anch’essa di conseguenza, grazie a una sua biografia che mi è stata chiesta dopo i miei lavori precedenti dall’Associazione Amici di Adriana Zarri. Era uno dei miei riferimenti giovanili, la leggevo su Rocca, mi piacevano molto le sue «Lettere dall’eremo» (oggi in Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011) e compravo i suoi libri. Mi affascinava il suo cristianesimo, in cui riconoscevo la novità dirompente del Concilio Vaticano II e il suo orizzonte interiore, il suo aver fatto della ricerca di Dio il cuore della sua vita. Ma per rispondere alla domanda, direi che mi colpiva e mi interessava approfondire il suo essere donna di lotta e di preghiera, dotata di una forza di intervento radicale e insieme di una rara qualità interiore: così la ricordano filosofi e teologi che l’hanno conosciuta come Mario Tronti, Giannino Piana, Piero Coda. Apparteneva a quel cristianesimo di denuncia e di testimonianza che ha animato buona parte del Novecento e che l’accomuna ai Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, a cui qualcuno l’accostava come voce “profetica”. Nello stesso tempo era una contemplativa: sulla fine degli anni Sessanta maturò l’esigenza di una vita più raccolta e solitaria e diede avvio a una sua originale esperienza monastica ed eremitica al di fuori da qualsiasi appartenenza a ordini o strutture ecclesiastiche. I suoi eremi divennero oasi di armonia e di bellezza, spazi di accoglienza e di respiro spirituale per credenti critici e in ricerca, per quanti si sentivano rifiutati, per chi non attribuiva alcun nome a un “assoluto” a cui comunque aspirava. In tante sue pagine si riconosce una sensibilità molto contemporanea: affermava di sentirsi immersa nella «comunione cosmica», avvertiva la terra come comunità fraterna di vite e realtà animali, vegetali, minerali da custodire amorevolmente rifiutando ogni «antropocentrismo» sfruttatore e devastatore. Una sensibilità e una vita che oggi diremmo “ecologiche” come scriveva lei stessa utilizzando una parola allora nuova e inedita.
All’apparenza Adriana Zarri è una figura che con le sue scelte sembrava sfidare convenzioni e luoghi comuni. Ma è veramente così?
Tutto nasce da una forte fedeltà cristiana e umana: essere cristiani significa in primo luogo essere pienamente uomini e donne, non essere “meno”, non vivere una condizione di obbedienza passiva, di minorità. Da qui il suo esercitare una forte critica alla Chiesa del tempo, del tutto inusuale, tanto più in una donna. La Chiesa, scriveva in un libro pubblicato negli anni del Concilio Vaticano II, è «madre» ma è anche «figlia» di ogni credente, il quale ha il «dovere» di concorrere alla sua edificazione, anche criticando le patologie che ne oscurano il volto (La Chiesa nostra figlia, La Locusta, 1962). Dopo secoli di «integrismo», «clericalismo», «immobilismo» occorreva impegnarsi in prima persona per riconsegnare la Chiesa alla verità del Vangelo e alla fedeltà alla storia. In nome di questo impegno non si sottrasse a nessuna delle battaglie del tempo. Caldeggiò il superamento dell’autoritarismo e la promozione di forme di gestione collegiale del potere; auspicò la fine di compromessi e collusioni con la politica; discusse su celibato dei preti, sessualità, ruolo dei laici e delle donne, autonomia della legge civile dalla legge religiosa sostenendo le leggi del divorzio e dell’aborto. Denunciò quelli che le apparvero arbitri e valorizzò scelte evangelicamente esemplari facendosi paladina di un «cattolicesimo adulto» e pensante.
Ho letto che in una precedente intervista, rispondendo a una domanda, lei ha definito Adriana Zarri: “…una delle donne «assolute», «imperdonabili» che hanno attraversato la storia del Novecento”. Mi vuole ampliare questo concetto?
Ho osato un rimando a due parole spese per un genio letterario e un genio filosofico, come Simone Weil e Cristina Campo, anche se Adriana è assai meno nota di loro. Si potrebbe esprimere come la forza di seguire il proprio mandato interiore oltre le convenzioni accettate comunemente. Il prendersi la libertà di seguire quella che si ritiene la verità anche se si tratta di intraprendere cammini solitari e singolari. Anche insopportabili per le regole della quotidianità, della normalità condivisa da tutti. Adriana Zarri: scomoda per sé e per gli altri perché decisa ad affermare quanto le appariva giusto e vero anche quando risultava costoso in termini di popolarità, senza guardare in faccia a nessuno, neppure se era della propria parte. Scrisse di lei l’amica Rossana Rossanda: «inflessibilmente libera nel suo veleggiare controvento». Anche l’avere amicizie tra credenti e non credenti è un esempio di questa libertà: Rossana Rossanda e Pietro Ingrao furono i più noti. Ma anche Sergio Zavoli avvertiva il fascino del suo procedere altrimenti dalle logiche del mondo e Oscar Luigi Scalfaro andò a parlare da lei dopo la fine del suo settennato presidenziale.
Un’ultima domanda. Cosa si prova nel farlo, e cosa si desidera dare ai lettori, quando si scrive di personaggi che hanno fatto la storia del nostro recente passato quali quelli di cui abbiamo sinora parlato?
Fare storia come piace fare a me è anche il piacere della scoperta di figure, intrecci, relazioni, umanità che arricchiscono la propria umanità e con le quali si spera di poter arricchire quella di chi legge. Uno dei più grandi storici italiani contemporanei, Giovanni Miccoli, scriveva che i libri di storia non possono rivelare i segreti più profondi del cuore ma, credo io, possono un po’ appressarsi a vite che per qualche motivo ci appaiono belle, dense, significative. E regalare qualche nuova luce anche alle vite degli altri.
Enrico Miniati