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24 Gennaio 2020Seconda parte- Racconto di Dunia Sardi “Brunero Tesi” tratto dal libro “La bambina con la farfalla sulla testa” – editrice Attucci, Carmignano.( la prima parte è stata pubblicata su Arteventinews il 20/01/2020)
…Qualche tempo dopo, si seppe che Brunero era stato preso a Prato in un rastrellamento dei tedeschi e delle milizie fasciste, durante lo sciopero generale degli operai dell’industria tessile, e che era stato portato in una caserma dove era rimasto fermo per qualche giorno; poi, visto che nessuno era intervenuto per liberarlo, era stato portato a Firenze, alla stazione di Santa Maria Novella, e fatto salire con altri prigionieri su un treno per Mauthausen.
Quando, anni dopo, ho chiesto perché nessuno di quelli che potevano aveva fatto niente per liberare quel ragazzo, mi è stato risposto che la nostra famiglia era malvista dai fascisti perché eravamo considerati comunisti, dato che alcuni parenti della nonna Morina erano sospettati di aiutare i partigiani o addirittura di farne parte.
Io ricordavo Brunero per averlo incontrato quando, in quel tempo di guerra, andavamo sfollate per paura dei bombardamenti, al “Castello delle Bastogie” come veniva chiamato quel borgo di case in fondo al paese, dove comincia la campagna.
Brunero aveva sedici anni, era un ragazzo con un viso rotondo, dai lineamenti dolci e grandi occhi scuri. Era molto timido, arrossiva quando c’era gente e si nascondeva evitando ogni compagnia. Le poche volte che lo vedevo, andava di corsa per arrivare in tempo al lavoro: aiutava uno zio, a costruire pozzi artesiani, per sostenere la famiglia; visto che il padre era malato, si sentiva lui l’uomo di casa. La sera, a veglia, la nonna parlando di Brunero diceva che era così spaurito perché aveva sofferto molto. Raccontava, che la vita non aveva sorriso a quel ragazzo: qualche anno prima era morta la sorella Bice, che aveva solo quindici anni, per una malattia che non era stato possibile curare, e dopo un paio di anni se ne era andata anche la sua mamma, consumata da un dolore più forte di lei. Il padre Ugo e lui erano rimasti soli nella vecchia e grande casa, aiutati dalla presenza e dall’affetto di Ines, una sorella della sua mamma.
Per un certo periodo erano andati avanti aggrappandosi l’uno all’altro e sorreggendosi a vicenda, poi Ugo aveva pensato di dare una nuova mamma a quel bambino che sembrava sperduto e aveva sposato Ines, certo che avrebbe voluto bene a Brunero come una vera mamma. La famiglia si era riformata ed anche il babbo di Brunero sembrava aver ritrovato la speranza. Era nato da poco Giovanni, il bambino che portò di nuovo il sorriso in quella casa dove era passato tanto dolore. Purtroppo questa gioia non durò a lungo. Il babbo, il cui fisico era stato troppo provato dalle sofferenze, si ammalò, e per questo servivano delle medicine, che in quel tempo non era facile trovare.
La nonna raccontava tutto questo con la voce rassegnata di chi è abituato al dolore, allargando le braccia in un gesto di impotenza e alzando gli occhi al cielo, rimettendosi, come diceva lei, nelle mani di “Quello lassù”.
La nonna si rivolgeva a Gesù con confidenza; aveva molto amore per lui, diceva che era stato un giusto: era dalla parte dei poveri e predicava l’uguaglianza, inoltre portava sempre un mantello rosso. Per questa ragione, secondo lei, lo avevano messo in croce.
Quando raccontava tutto questo, la nonna Morina non sapeva ancora che per questa famiglia il Calvario non era finito e per Brunero qualcuno aveva già preparato “l’ultima stazione”.
Da qualche mese avevamo lasciato la loro casa, quando le Bastoge seppero che le medicine per curare il babbo, inutilmente cercate nella nostra farmacia, si trovavano a Prato di contrabbando.
Così Brunero partì una mattina per andare a comprarle, mettendo l’affetto per il padre al di sopra dei suoi timori.
Era il marzo del ’44 e proprio in quei giorni erano cominciati gli scioperi generali nel centro Italia proclamati dal Comitato di Liberazione Nazionale contro il nazi-fascismo e la guerra e Hitler aveva dato ordine di fare rastrellamenti tra gli scioperanti. Anche a Prato quel giorno si faceva sciopero e la città era piombata nel caos.
Il grido lacerante delle sirene delle fabbriche sferzava l’aria e da un capo all’altro della città, nelle strade, si rincorrevano i fischi delle milizie e gli spari intimidatori dei tedeschi che urlavano, nella loro lingua, parole incomprensibili in tono rabbioso .
Correvano dietro a uomini ancora in tuta da lavoro che scappavano lungo i marciapiedi della città cercando invano di nascondersi alla vista delle milizie che avevano riempito la città di camionette. Da una parte all’altra delle strade e nei vicoli stretti del centro, si udivano le grida delle donne affacciate alle finestre delle case che chiamavano il nome dei mariti o dei figli salutati la mattina, sapendo che sarebbero andati a occupare le fabbriche o a fare i picchetti per non permettere a nessuno di varcare il cancello. I bambini correvano insieme alle mamme alla disperata ricerca del babbo terrorizzati dai fischi e dalle urla ferrigne dei tedeschi che, mitra alla mano intimavano l’alt alle persone che invano cercavano rifugio degli androni dei palazzi o nei negozi che non avevano fatto in tempo a chiudere le saracinesche. Dalle strade, che circondavano il centro città ove le milizie frugavano palmo a palmo per trovare i disperati in fuga, si vedevano i cortili delle fabbriche, con camioncini ancora carichi di pezze dei tessuti, mentre le bocche spalancate dei portoni mostravano i reparti con i macchinari spenti: strani giganti che assistevano impotenti allo strazio di quegli operai che avevano lavorato giorno e notte per sfamare le famiglie e tenere in vita il cuore di quell’industria così indispensabile alla città.
Brunero, uscito dalla farmacia dove aveva trovato le medicine che cercava, si stava avviando verso il centro, quando si era reso conto che stava entrando nella porta dell’inferno. Senza nemmeno sapere quello che stava succedendo, frastornato dalle urla e dal rumore che saliva da tutte le strade, si era messo a correre, senza sapere dove andare, cercando un rifugio; ma come era successo per altri operai non era riuscito a nascondersi e si era trovato immobilizzato e spinto a forza in una di quelle camionette ferme in attesa di vittime da trasportare nelle caserme.
Niente impietosì i suoi aguzzini, né quel viso di bambino impaurito, ne le medicine che ancora teneva nascoste nelle tasche dei pantaloni alla zuava.
Dopo qualche mese, durante i quali la famiglia non aveva mai smesso di sperare che un giorno il loro ragazzo sarebbe tornato a casa, arrivò nell’aia delle Bastoge una guardia in motocicletta e alla madre Ines, che attratta dal rumore si era affacciata alla porta di casa, porse un telegramma; il rombo della moto che ripartiva coprì il grido della donna che aveva aperto il foglio verdognolo e aveva letto: “Il 10 ottobre 1944, nel campo di concentramento di Mauthausen è morto Brunero Tesi, di anni sedici”.
Come una pianta a cui sono state tagliate le radici e cade senza rumore, il padre Ugo si lasciò andare, dopo aver ricevuto quel telegramma che toglieva ogni speranza.
Rimase solo il piccolo Giovanni a consolare Ines, che aveva sperato invano di riformare una famiglia.
Nel vecchio cimitero di San Piero c’è ancora la tomba di questa famiglia, distrutta dalla guerra.
Da dentro una cornice ovale di bronzo, protetti da un vetro, ci guardano i giovani genitori ed i loro due figli; le immagini color seppia sono lì a ricordare orrori che è impossibile cancellare dalla memoria.
Tratto dal libro “La bambina con la farfalla sulla testa”- editrice Attucci, Carmignano, di Dunia Sardi
- foto Tesi
- foto memoria brunero