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4 Febbraio 2020Francesco Butini ci parla del suo libro “Camp Arena” e di… molto altro.
«Non voglio rivelare dettagli. Posso solo dire che ho potuto osservare il lavoro e la professionalità di quella squadra (n.d.r.: Task Force 45). Credo che gli italiani sarebbero orgogliosi dei loro soldati.»
(Stanley A. McChrystal, generale statunitense Comandante dell’International Security Assistance Force (ISAF) e dell’U.S. Forces in Afghanistan (USFOR-A), 6 marzo 2010)
Apro questo articolo riportando le parole pronunciate da un alto ufficiale americano, a proposito dell’opera compiuta dai nostri soldati in Afghanistan. E questo non per un mero spirito patriottico o per chissà quale altra inutile vanagloria nazionale. No, lo faccio per un motivo ben diverso da quello di celebrare le gesta eroiche o “guerresche” dei nostri soldati. Lo faccio perché quella guerra che va avanti da decine e decine di anni ha visto la nostra partecipazione attiva, non tanto sul campo di battaglia – anche se purtroppo sono stati tantissimi i nostri militari caduti sul campo – quanto in opere di ricostruzione e di realizzazione di importanti basi mediche e paramilitari che sono servite a rendere meno tragiche – se questo può mai essere possibile – le condizioni di vita di quelle sfortunate popolazioni.
Gli interventi militari o umanitari ai quali partecipiamo, a volte purtroppo con i morti e i feriti, troppo velocemente vengono dimenticati, superati nelle cronache giornalistiche e televisive da fatti spesso ben più banali, ma che fanno più “audience”.
Ed è proprio di uno di questi interventi, anzi di una vera e propria missione militare che tratta il libro “Camp Arena” di Francesco Butini che oggi intervisto prima che lui prenda a parlarne alla Biblioteca dell’Amicizia di Pistoia.
Chi è Francesco Butini? – gli chiedo per conoscere meglio il personaggio che ho davanti.
Sono ingegnere elettronico, ho fatto per molti anni il dirigente in grossi gruppi industriali tra i quali anche Ansaldo Breda e ho sempre coltivato passione e interesse verso il mondo militare e politico. Questo ha fatto sì che le missioni militari all’estero siano state per me oggetto di particolare interesse, di studi, e di analisi. E, in particolare quella in Afghanistan, è diventata il libro che oggi presento. Aggiungo che questa è la mia prima pubblicazione dedicata interamente a una di queste missioni militari.
Un libro il tuo, che racconta in maniera molto precisa e dettagliata quello che è stato l’intervento realizzato dagli uomini della nostra Aeronautica, in un teatro di guerra pericolosissimo come è il quadrante ovest dell’Afghanistan. Ma qual è oggi la situazione in quella regione?
Dalle informazioni che è possibile avere, sembrerebbe trasparire che siamo purtroppo ancora molto distanti dalla fine del conflitto. E l’attuale situazione appare quasi esattamente quella che ho utilizzato per dare un titolo a un capitolo del libro: “Nessuno vince e nessuno perde”. Il governo legittimo, quello riconosciuto a livello internazionale, controlla pienamente solo una parte del territorio; l’altra parte è invece sotto l’influenza diretta o indiretta dei gruppi talebani che erano al potere nel 2001 quando allora ospitavano Osama Bin Laden. E quindi sembra quella dell’Afghanistan una situazione endemica nella quale appare sempre più complesso riuscire a trovare una via d’uscita pacifica. Da anni sono in corso trattative di pace, a loro volta molto contrastate, tra gli Stati Uniti e i rappresentanti dei gruppi talebani, che procedono però come fanno i gamberi, con un passo avanti e due indietro. E da alcuni mesi si sono tenute le elezioni per la nomina del Presidente della Repubblica, ma ancora gli organismi preposti non sono stati in grado di fornire i risultati definitivi. Tutto questo dà la misura della fragilità estrema del sistema a causa anche della violenza radicata in alcune parti del territorio. Aggiungiamo poi la necessità sollevata dagli stessi Stati Uniti ma anche dai loro Alleati di non voler più mantenere nel paese una presenza militare che data ormai dal 2001, con la conseguente reale possibilità che si ritorni in breve a quell’Afghanistan che era considerato il luogo dove il terrorismo aveva ampia possibilità di radicarsi. Quindi le prospettive, almeno nel breve tempo, non sono per niente incoraggianti.
Eppure quasi niente di tutto questo sembra trapelare. Una volta passata l’eco dell’intervento armato contro il terrorismo, delle battaglie, dei continui attentati nelle vie di Kabul, della cacciata e della morte di Bin Laden, sull’Afghanistan sembra calato il silenzio. Stiamo parlando di un territorio eternamente in conflitto anche con se stesso, nel quale vige un’apparente pace, però “armatissima”.
Hai perfettamente ragione. Sul primo punto e cioè l’attenzione che viene posta su queste vicende, devo convenire che, almeno qua da noi, siamo particolarmente indietro. Perché non ci dobbiamo dimenticare che tra i primi tre paesi che hanno fornito un appoggio militare diretto c’è proprio l’Italia. E che ancora oggi abbiamo il comando di un intero settore, quello ovest. Una presenza la nostra quindi significativa, che trova spazio sui giornali soltanto quando si verificano attentati, bombardamenti o morti. Nelle altre nazioni mi risulta che non sia così. E questo non vale soltanto per la missione afghana. Quando abbiamo dei militari all’estero, noi non sviluppiamo un adeguato approfondimento, anche critico se vogliamo, su quanto il nostro paese stia facendo. E sulla tua seconda considerazione non posso che essere d’accordo. Questo è un luogo eternamente in guerra, anche dopo che sono passati ben diciotto anni dall’intervento armato delle forze multinazionali, avvenuto quale conseguenza dei sei anni di presenza al potere dei gruppi talebani favorevoli alla presenza sul territorio delle organizzazioni terroristiche, potere raggiunto dopo sei anni di guerre civili, a loro volta conseguenza della resistenza armata durata ben dieci anni per contrastare l’occupazione militare dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa sovietica. In tutto, fanno quasi quaranta anni di violenza, combattimenti, occupazioni, guerra civile e attentati. Laggiù ci sono intere generazioni che non hanno mai conosciuto nient’altro all’infuori di questo modo di sopravvivere, continuamente armati contro qualcosa o qualcuno. È quindi facile comprendere cosa sia veramente quel paese. Forse, di analogo nel mondo, si può trovare soltanto la Terra Santa. È l’Afghanistan un territorio che meriterebbe sicuramente un’attenzione maggiore, ma è altrettanto vero che le potenze occidentali non sono più in grado di sostenere il peso di una presenza costante, divenuta costosissima sia in termini di perdite umane che economiche.
Un’altra domanda prima di passare a parlare del libro. Hai accennato all’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Io, come immagino quasi tutti quelli della mia età, ho ancora negli occhi le immagini dei combattenti per la liberazione del paese. Erano pastori, contadini, montanari. Parlo di quei mujaheddin dei quali ci innamorammo tutti, ricollegandoli idealmente a quanto avvenuto da noi nella seconda guerra mondiale. Perché, secondo te, dopo aver ottenuto la vittoria non sono stati in grado di conquistare anche la pace?
È una domanda “enorme” la tua. Proverò a darti quella che è ovviamente la mia opinione, e lo farò seguendoti su quel parallelismo, che in fondo se vogliamo ha degli elementi in comune tra le due vicende, tranne uno importantissimo che adesso ti dirò. Quando l’Armata Rossa si ritirò e cadde il governo fantoccio da loro installato al potere, accadde quello che purtroppo spesso avviene in queste situazioni: chi vince vuole spartirsi il potere. E questa è la differenza di cui parlavo prima. Da noi questo non è successo, principalmente perché scacciati i tedeschi, rimasero gli americani. E fu anche la loro presenza che permise alle varie forze politiche di trovare delle forme di convivenza democratica senza imporre in maniera cruenta le proprie idee. In Afghanistan questo non è avvenuto. Una volta ritirati i russi, tutti nel mondo “spensero le luci” e dimenticarono quella vicenda lasciandolo abbandonato a se stesso e alle proprie contraddizioni interne. Salvo poi riscoprirlo quando caddero le Torri Gemelle e il mondo si risvegliò sotto l’incubo del terrorismo, dato che era proprio in quel paese in larga misura dimenticato che aveva trovato il terreno adatto per radicarsi. Un altro elemento è da ricercarsi nella scarsità di “produzione politica” dell’Islam che domina tutta la regione medio orientale. Se lo osserviamo criticamente, non possiamo non notare come esso si presenti principalmente in due sole vesti: quella militare e quella radicale e religiosa. L’Islam politico, almeno con il significato che noi diamo alla “politica”, non sembra esistere. E dato che la componente religiosa in quella parte del globo è predominante, anche nella scelta delle forme di governo si tende ad adottare uno di quei due estremi, e questo genera sempre scontri armati. Chiaramente questa è una forma molto stringata di rispondere alla tua domanda, e so bene che non è soltanto così, ma dovendo condensare un pensiero che sarebbe necessariamente lunghissimo, diciamo che come sintesi può andare.
Parliamo adesso del libro e di cosa tratta. Prima però, per chi come me non è ferratissimo in geografia, mi inquadri dove è situato l’Afghanistan e quali sono gli Stati limitrofi?
È in Asia Centrale, e mentre prima della “guerra fredda” aveva a nord l’Unione Sovietica, adesso, sparita quella, vi sono Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, più un piccolissimo lembo di Cina che nel tempo ha assunto una valenza politica importantissima. A est e a sud confina con il Pakistan, a ovest con l’Iran. E questi, il primo a maggioranza sunnita, il secondo sciita, sono due stati fortemente caratterizzati da regimi di tipo religioso e militare. Questo spiega anche molte cose, perché la popolazione afghana ha origine per la sua stragrande maggioranza proprio dai paesi confinanti ed è conseguentemente un miscuglio di questi popoli, uniti in un groviglio pieno di contraddizioni spesso laceranti. E in questo coacervo di gruppi diversissimi, l'”assetto istituzionale” predominante è ancora nella stragrande parte del paese quello delle tribù. Ecco perché forse era la monarchia, quando ancora esisteva, il collante che univa queste genti. Il re era da tutti considerato e riconosciuto come l’autorità suprema, che lasciava però a ogni tribù la propria autonomia. Venuto meno il regime monarchico, l’idea di democrazia, di repubblica e di autorità dello stato è un qualcosa molto distante dal loro modo di ragionare. Ed è anche con questo ulteriore problema di rappresentatività tribale che si sono dovute confrontare le potenze occidentali.
Ed eccoci finalmente al libro. L’ho un po’ tirata per le lunghe, ma ritenevo fosse necessario dare ai nostri lettori una sia pur minima chiave di lettura riguardo all’argomento di cui hai scritto. Chiariamo però una cosa fondamentale: il tuo è un libro che narra di un intervento militare, ma non è assolutamente un libro sulla guerra. È la cronaca e il resoconto di un qualcosa di straordinario che, tramite i nostri militari, siamo riusciti a realizzare in quel tormentato paese.
Esatto. Il libro tratta di tre argomenti: il primo è l’Afghanistan e il tentativo di analizzare questo scenario che conta ormai quarant’anni di guerra, partendo dal 1973 anno nel quale con un colpo di stato viene deposto il re, e arrivando si può dire sino ai giorni nostri. Il secondo argomento è il terrorismo internazionale, perché molto parte dalla data dell’11 settembre 2001. Nel libro si analizza come il terrorismo, prevalentemente di matrice islamista, abbia inciso sulla storia mondiale degli ultimi anni, e, con la presenza di Al Qaida in Afghanistan, ne abbia condizionato le sorti. Il terzo elemento è quello che dà il titolo al libro. Ed è la missione che un reparto dell’Areonautica Militare italiana, il Reparto Mobile di Supporto di Villafranca a Verona, ha svolto. Quelli furono i primi nostri soldati che posero il piede sul suolo afghano. E la loro missione era quella di costruire quella che sarebbe divenuta la base del Comando Ovest della NATO, così come da mandato ricevuto dall’ONU. Ed il libro è il racconto di cosa questi militari sono riusciti a realizzare, nonostante che molti probabilmente pensassero che non fossimo all’altezza di portare a termine il nostro compito.
Hai detto, in estrema sintesi ovviamente, che eravamo lì per realizzare un’opera, quindi anche immagino delle strutture fisse non soltanto di tipo militare. Perché allora affidare questo compito all’Aeronautica e non a un altro corpo tipo ad esempio il Genio Militare?
Facciamo una doverosa premessa: l’intervento in Afghanistan si è composto di due distinti interventi o missioni se preferisci. Il primo di combattimento, nell’ottobre 2001, sotto la guida degli Stati Uniti, che doveva disarticolare le strutture terroristiche di Al Qaida. La seconda missione chiamata ISAF, International Security Assistance Force, doveva, tramite una forza di sicurezza, sostenere e aiutare a crescere il nuovo regime afghano, perché è facile immaginare quanto questo fosse debole, impreparato, privo di una qualsiasi organizzazione di difesa e perciò esposto ai potenziali attacchi dei talebani. Le forze armate che facevano parte di ISAF dovevano allora garantire la sicurezza degli edifici, delle vie di comunicazione, delle popolazioni, eccetera. Dapprima avveniva soltanto attorno a Kabul, la capitale, poi, a partire dal 2003 l’ONU decise di estendere l’intervento a tutto il paese, affidando il compito delle operazioni alla NATO, che lo divise in quattro distinte regioni. A nord il comando è dato alla Germania, a ovest all’Italia, a sud all’Inghilterra e al Canada, e a est agli Stati Uniti. Quindi a noi toccò la responsabilità di avere il comando operativo di tutte le forze internazionali dislocate nel quadrante ovest dell’Afghanistan. Ciascuna di queste quattro zone doveva ovviamente avere una base che fungesse da Comando Regionale. A ovest, la città principale era Herat, che nelle sue vicinanze aveva un vecchio aeroporto formato soltanto da una pista in terra battuta posta in mezzo al nulla e resa quasi inservibile dalle buche causate dai colpi sparati dall’artiglieria sovietica anni prima e che nessuno aveva mai riparato. Lì doveva nascere la base aerea dell’intero Quadrante Ovest. E quindi fu affidato dal nostro Stato Maggiore della Difesa il compito di realizzarla ai Reparti Logistici dell’Aeronautica. Entrano così in ballo il Reparto Mobile di Supporto di stanza a Villafranca di Verona. Ed ecco così svelato il perché è stata la nostra Aeronautica ha portare a termine questo compito.
Molto interessante. Ma perché chiamare quel posto Camp Arena? Adesso devi svelarci il motivo per il quale è stato scelto questo nome per una base in pieno deserto afghano.
Perché i primi quarantasette militari che misero piede lì, provenivano tutti da Villafranca di Verona. E Verona e la sua Arena sono come sappiamo un tutt’uno. Da qui la scelta del nome.
Soltanto quarantasette uomini? Per mettere in piedi dal nulla un’intera base militare? Ma quanto ci è voluto?
L’ordine della NATO era di farlo in quarantacinque giorni. I nostri ne hanno utilizzati uno di meno. Una vera impresa, perché non hanno soltanto reso praticabile la pista, ma hanno costruito ex novo anche tutte le necessarie strutture logistiche, compreso un ospedale.
Incredibile. Davvero. Mi parli brevemente di Herat?
Come ho già accennato, è la principale città nell’ovest del paese. È stata un tempo fiorentissima, anche dal punto di vista culturale, tanto da poterla quasi definire la Firenze afghana. Ed è stata quella che maggiormente si è contrapposta ai talebani dato che quella regione è principalmente abitata da popolazioni non Pashtun, che sono tradizionalmente legate a questi ultimi. Qui infatti la caduta del regime talebano è stata accolta con favore e conseguentemente anche le forze militari occidentali hanno ricevuto una miglior accoglienza di quanto ad esempio non sia avvenuto nel settore est, che, come detto, confina con il Pakistan dove si era rifugiato Bin Laden con i suoi uomini e che da lì continuavano a combattere.
Era, da quanto mi hai anticipato, una città non facilmente raggiungibile. E l’aeroporto, come hai scritto nel tuo libro, era qualcosa di molto relativo, privo di tutto, al punto che i nostri militari hanno dovuto addirittura procurarsi l’acqua scavando un pozzo. Ma è proprio così?
Sì, è proprio così. Pensa che in questo cosiddetto campo di aviazione in mezzo al deserto, esisteva soltanto una pista semidistrutta e una vecchissima casupola quale unica struttura aeroportuale. L’intero traffico aereo, costituito da un paio di voli a settimana, veniva gestito da un unico “dipendente” che si occupava di tutto: dal fare i biglietti ai passeggeri che andavano o venivano, sino a fungere da controllore di volo nel dirigere il traffico aereo. Ed è in questo contesto che si sono dovuti calare i nostri connazionali che, dunque dal nulla, hanno realizzato tutto quanto era necessario per poter ricevere in sicurezza militari e civili, principalmente italiani e spagnoli, destinati al controllo della zona ovest dell’Afghanistan. Quindi alloggiamenti, sale di comando, una nuova stazione di comando e controllo, nuovi macchinari e apparecchiature per il decollo e l’atterraggio, aree di stoccaggio dei carburanti e di parcheggio degli elicotteri, eccetera. Insomma una vera e propria piccola città.
E tutto questo con soli quarantasette militari?
All’inizio sì. A poco a poco, grazie a un imponente “ponte aereo” con l’Italia, si affiancarono altre centinaia di militari.
Ma l’opera avveniva in “sicurezza” oppure quella era una zona di combattimento? Insomma, oltre a costruire, i nostri si dovevano anche difendere?
Assolutamente sì. Il luogo dove doveva nascere Camp Arena era facilmente attaccabile, data proprio la sua posizione lontana dai centri abitati. Inoltre era posto all’interno del territorio dell’Afghanistan e allo stesso tempo molto vicino al confine iraniano, cosa questa che permetteva agli assalitori di contare su facili vie di fuga. Infatti i nostri primissimi impegni furono l’approntamento di linee di telecomunicazioni con il Comando Nato e con il Comando Interforze in Italia, e di idonee strutture difensive. Perché oggi è facile dire che quella era una zona relativamente tranquilla, ma l’Afghanistan era pur sempre un teatro di guerra, e i quarantasette nostri militari non potevano certamente illudersi di trovarsi in un posto sicuro.
E tutto era affidato all’Aeronautica compresa la difesa del campo? Non c’era l’Esercito?
Esattamente. Quella è stata una vera prova della nostra capacità organizzativa, sia logistica che militare. Si può dire che Herat è stato un vero punto di svolta per quanto riguarda lo sviluppo logistico della nostra forza aerea. Oggi è internazionalmente riconosciuto che la nostra Aeronautica militare è in grado di operare con successo anche in questo tipo di situazioni. Ti do soltanto un numero per quantificare cosa è stato fatto: in un mese, da Villafranca di Verona a Camp Arena sono state movimentate oltre 1600 tonnellate di materiali. In un mese è stato movimentato l’equivalente dei dieci anni precedenti.
Incredibile, veramente incredibile. Senti Francesco, nel tuo libro parli anche dell’aspetto politico e di come i nostri parlamentari abbiano contribuito a questo successo. Com’è che per una volta si sono trovati d’accordo?
Il libro ha due appendici: una legata alla storia contemporanea dell’Afghanistan, l’altro ai dibattiti parlamentari che dal 2001 sino al varo della missione Camp Arena si sono tenuti alla Camera e al Senato. Ho letto la documentazione e studiato tutte le varie posizioni politiche che in quel lasso di tempo sono state espresse dai partiti, di maggioranza e di opposizione; e debbo dire che sull’Afghanistan la nostra classe politica, tutta, si è assunta una responsabilità all’altezza dell’importanza del ruolo che in quel momento ci stavamo assumendo. E lo dico riferendomi anche alla qualità del dibattito parlamentare. E questo non solo per le capacità di coloro che allora si trovavano in Parlamento, ma perché ritengo che con l’11 settembre tutti avessero compreso che quello era il punto di svolta, e che l’Afghanistan era il nodo cruciale di quella svolta. Aggiungo che questo avvenne anche in quasi tutti gli altri paesi che poi parteciparono a quelle due missioni di cui parlavo prima. E ho voluto sottolineare nel mio libro questo aspetto positivo che è stato assolutamente fondamentale.
Francesco, pensando alla situazione post conflitto, cosa ne pensi di questa frase attribuita a Machiavelli? “Conquistare è più facile che mantenere”.
Concordo, ma solo in parte. Diciamo che chi vince la guerra, non sempre vince anche la pace. E il caso italiano è esattamente questo. Noi abbiamo vinto la Prima Guerra Mondiale e subito dopo abbiamo perso la pace interna, mentre poi abbiamo perso la Seconda Guerra Mondiale ma abbiamo trovato un lunghissimo periodo di pace che dura tutt’ora. Tutto questo per dire che non esiste una corrispondenza diretta tra le due cose. Quello che condivido meno di quella frase, se la leghiamo alla situazione afghana è sul “mantenere”. L’obbiettivo delle forze multinazionali non era quello di assumere e, conseguentemente, mantenere il controllo dell’Afghanistan, perché questo è compito degli afghani. Quindi per essere più aderenti alla realtà, dovremmo probabilmente esplicitare in modo diverso quel pensiero. Un conto è vincere una guerra e un altro è garantire al paese nel quale questa si è svolta, di attrezzarsi per mantenere la pace raggiunta. E questo è stato il punto sul quale le Forze di cui parlavo non sono state capaci di incidere. Hanno vinto la guerra, ma non sono state in grado di sostenere in modo adeguato i nuovi governi Afghani, affinché potesse avvenire la pacificazione del paese.
Sono d’accordo con te, ma dovendo io fare le domande, insisto su questo punto. Accetto quanto tu dici per le Forze Occidentali; ma i mujaheddin che avevano vinto la guerra contro l’Unione Sovietica, perché hanno fallito nella successiva conquista della pace?
Dopo anni di combattimenti avevano vinto la guerra per la liberazione del loro paese, ma purtroppo questo non è bastato per creare le condizioni per una pace duratura. Non ci sono riusciti neanche gli afghani. Troppe rovine, troppe rivalità, troppa volontà di predominio. L’alternativa alla guerra è la politica.
Quindi dal punto di vista della democrazia come la intendiamo noi occidentali quell’intervento è stato un mezzo fallimento?
È una domanda difficilissima. Ma il grande tema sul quale si è discusso e dovremmo continuare a discutere è un altro: è possibile esportarla la democrazia? Qualcosa comunque è attecchito anche là, sia pur con mille contraddizioni. Per esempio, per la prima volta le donne sono state ammesse a votare. Ed è indiscutibilmente un segno di democrazia. Ma esiste veramente una coscienza sociale e civile nell’intero paese che accetta questa cosa? E purtroppo, con dispiacere, devo dire che la risposta è no.
Perché secondo te è così?
La mia idea è che la struttura dell’Afghanistan sia rimasta sostanzialmente quella tribale, nella quale l’idea di democrazia non è contemplata. In quelle società comanda l’anziano o, spesso, il più forte, e non chi ha il maggior consenso, che magari è dei giovani o dei deboli. Le democrazie occidentali ovviamente, avendo a modello sistemi totalmente diversi da quelli che hanno trovato, hanno tentato di introdurre anche lì quella che è la nostra idea di governo. Il problema vero è che lì non esistevano e credo purtroppo che non esistano ancora delle basi solide affinché questo progetto potesse attecchire. E assieme a tutto questo aggiungo che esiste un ulteriore problema: se oggi ce ne andiamo e lasciamo l’Afghanistan, cosa può succedere? E la risposta che appare più probabile è l’inizio di una nuova guerra civile. Ed è per questo che non sembrano esserci vie d’uscita.
Tornando a parlare di Camp Arena e dell’opera dei nostri soldati, ti chiedo se oltre all’aver creato questa struttura che ovviamente diventerà proprietà degli afghani, siamo riusciti anche a far capire loro chi siamo. Esiste nella popolazione di Herat un sentimento positivo nei nostri confronti?
La risposta è sì. Questo, rispetto alle esperienze militari di quasi un secolo fa in terra d’Africa dove non abbiamo certamente dato prova di essere molto diversi dagli altri eserciti coloniali, è un altro esercito e ovviamente anche l’Italia è profondamente diversa. Le nostre forze armate, la nostra Repubblica, le nostre alleanze internazionali, e la modalità con la quale sviluppiamo la nostra partecipazione in queste situazioni, sono un qualcosa che ci contraddistingue positivamente. E non soltanto per l’approccio umano che siamo in grado di proporre, perché quando è stato necessario ingaggiare battaglia l’abbiamo fatto senza esitare, ma perché nel ricostruire, assistere le popolazioni e creare strutture ospedaliere, siamo stati assolutamente alla pari con tutti gli altri. E nel libro ho riportato alcune testimonianze rese dalla popolazione locale su quanto ho appena detto. Io penso che noi italiani siano adatti a missioni di mantenimento della pace, dove il profilo più significativo deve essere la difesa, la sicurezza, la ricostruzione.
Perché però da noi, in Patria, l’eco di questi successi è così scarso?
In parte l’abbiamo detto prima, e poi non dimentichiamoci che sono missioni ancora operative e quindi un minimo di riservatezza è d’obbligo. Sappi però che laggiù stiamo dando un grande esempio di civiltà, e di questo dobbiamo esserne orgogliosi.
Il tuo è un libro molto dettagliato, pieno di date e di dati; di cifre, immagini, situazioni e nomi. Tutte cose che ovviamente non sono disponibili a tutti. Come ti è venuta l’idea e quanta fatica ti è costata in termini di studio e di ricerca?
L’idea è nata dall’aver conosciuto il primo Comandante di Camp Arena. Ascoltandolo parlare dei suoi ricordi in Afghanistan, ho sentito che quella era una storia da raccontare, fuori dai canoni tipici della letteratura militare. L’interesse per quel paese risale invece a quando avevo 18 anni. Eravamo nel pieno della resistenza dei mujaheddin contro l’Armata Rossa ed ebbi l’occasione di incontrare alcuni giornalisti che erano appena tornati dalle zone di guerra. Avevano portato con sé alcune mine, ovviamente disinnescate, che i sovietici mettevano sui sentieri, vicino alle case e sul terreno. Erano verdi, a forma di foglia. Le cosiddette “mine giocattolo” che non servivano soltanto a uccidere, ma avevano lo scopo principale di mutilare specialmente i ragazzini che incauti le raccoglievano. E questo perché mutilare i ragazzi significava costringere gli adulti a rimanere nei propri villaggi per accudirli e non raggiungere così i combattenti sulle montagne. Ecco, questa forma aberrante di offesa non militare, indirizzata contro la parte più inerme della popolazione civile, fu ciò che più mi colpi di quei racconti che ascoltai. Rispetto invece a quanto ho riportato nel libro, la difficoltà è stata prima la raccolta, e poi l’analisi del materiale che avevo a disposizione, comprese le varie testimonianza e gli approfondimenti dei numerosi rapporti che ero riuscito a recuperare. Un lavoro che è durato quasi due anni, la cui principale difficoltà la definirei di natura storica. Inoltre il mio sforzo è stato quello di non fare soltanto un racconto, ma principalmente l’analisi di una missione.
Un lavoro meticoloso, preciso e oggettivo, al punto che il tuo lavoro è stato, passami il termine, vagliato sia dai Comandi militari che da organismi politici, che ne hanno riconosciuto l’estrema validità, compreso l’allora Ministra della Difesa che ha addirittura scritto la prefazione del libro.
È così. E la prefazione del Ministro della Difesa è un qualcosa che mi ha fatto particolare piacere.
Prima di salutarci ancora un paio di domande. Tu, prima di questo, avevi già scritto un saggio su un personaggio politico, Maurizio Vigiani. Dato che tra le due cose sembra non esistere alcuna attinenza, ci dici il perché di questa duplice ricerca?
I due mondi, quello militare e quello politico, mi hanno sempre interessato. Sono mondi che si incontrano, come accade sempre quando dobbiamo stabilire la partecipazione di una missione all’estero, cosa questa dove la decisione è esclusivamente di natura politica. E in entrambi questi mondi, io riesco a trovare l’interesse per storie “minori” che si collegano all’interno di un più grande fenomeno storico. Il libro cui accennavi, è la storia di un operaio che nel 1948 divenne senatore, e che nel 1953, non rieletto, torna a fare l’operaio. La sua vicenda personale e familiare si inserisce così in una storia più grande che è quella della ricostruzione del nostro paese. E allo stesso modo la realizzazione di Camp Arena, è un’esperienza che nell’ambito delle tante missioni che si sono succedute negli anni, ha la particolarità di essere inserita in una delle guerre più lunghe, contrastate e significative – in quanto frutto dell’attentato dell’11 settembre- avvenute di recente. In entrambi i casi mi è piaciuto rivivere dei grandi fatti, visti però attraverso gli occhi e le vicende apparentemente minori di personaggi come l’operaio che diventa Senatore o come i medici, i militari o gli addetti alla mensa che hanno realizzato Camp Arena. Storie apparentemente minori all’interno di una ben più grande storia, della quale ne hanno comunque interpretato una parte non insignificante.
Camp Arena è soltanto un riferimento di tipo militare, oppure per gli Afghani ha anche delle valenze diverse?
Camp Arena è lì da 14 anni. Ed è diventato un punto di riferimento per quelle popolazioni non soltanto per quanto ha rappresentato e tutt’ora rappresenta in termini di sicurezza del territorio. Camp Arena per loro è una certezza.
Ultimissima domanda: tu hai scritto un’opera dettagliatissima, senza aver mai messo piede in Afghanistan. Tra i tuoi sogni c’è quello di poter un giorno vedere Camp Arena con i tuoi occhi?
Senza dubbio. Anche se sono consapevole che forse è un sogno un po’ “pericoloso”.
Finisce qua l’intervista a Francesco Butini. Lunga, dettagliata, che tocca tanti temi diversi e non tratta soltanto del contenuto del suo splendido lavoro. Lunga ma non faticosa, perché francamente devo ammettere che ascoltare Francesco parlare è estremamente piacevole. Sa essere chiaro e preciso anche nell’esporre tesi e temi sui quali io non ero preparatissimo. Ed è per questo che spero proprio che chi ha iniziato a leggere abbia avuto voglia di arrivare sino in fondo. E sono certo che sarà d’accordo con me che ne è valsa la pena.
Per arteventinews
Enrico Miniati
Francesco Butini è laureato in Ingegneria elettronica con indirizzo Telecomunicazioni presso l’Università degli Studi di Firenze e ha iniziato la propria attività lavorativa presso la società SMA – Segnalamento Marittimo e Aereo del gruppo EFIM. In seguito ha lavorato presso altre società del gruppo Marconi Alenia Communications e del gruppo Finmeccanica ricoprendo incarichi diversi. Dal 2005 è stato responsabile dei rapporti parlamentari e governatori del gruppo Finmeccanica. Nel 2011 è stato nominato direttore delle relazioni esterne della società Ansaldo Breda. Dal 2013 è responsabile del Centro Studi di Confindustria Firenze.
Ha frequentato la 58° Sessione IASD presso il Centro Alti Studi per la Difesa, nonché diversi corsi di specializzazione alla Scuola di Management dell’Università LUISS. financing.
Ha pubblicato articoli e position papers su riviste scientifiche nazionali ed estere su temi relativi all’intelligenza artificiale e alle tecniche radar, nonché su temi di natura storica, politica ed economica.
Nel 2013 ha pubblicato un saggio intitolato: “Il senatore operaio”.
Le foto a corredo dell’articolo sono state concesse dall’autore del libro Camp Arena