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13 Gennaio 2020Nelle parole del figlio Carlo, la pittura dell’artista contemporaneo pistoiese Gianfranco Chiavacci
Una lunga, interessantissima intervista al figlio del grande artista Gianfranco Chiavacci, alla ricerca dell’essenza stessa di un artista affermato, ma del quale, forse, il grandissimo pubblico non ha ancora colto la reale importanza nell’ambito dell’astrattismo. E la facciamo all’interno di quello che è quasi una piccola galleria d’arte, dato che entrando nello studio di Carlo ci troviamo di colpo immersi, quasi spersi, tra le tele, le fotografie, le opere multimediali del padre.
Ed anche per un profano come sono io… è subito arte.
Carlo – inizio – prima di parlare del reale motivo per il quale oggi siamo qua, mi racconti qualcosa di te?
Mi sono sempre ironicamente definito un “ultras dell’arte”. Questo perché mi sono sempre sentito uno spettatore privilegiato che ha avuto l’immensa fortuna di nascere nella casa di un grandissimo artista, frequentata a sua volta da altri artisti. Cito solo ad esempio Melani, Ranaldi, Fabro. Questo mondo che ruotava attorno al babbo istintivamente mi attraeva, era pieno d’arte, ma anche di personaggi, di intelligenze, di dialoghi. Poi negli anni anch’io, sia pur in modo totalmente diverso da quello dell’artista, mi sono avvicinato a questo mondo. Ho iniziato a collaborare con alcuni di questi e a conoscerne altri documentando fotograficamente le loro opere. E non posso non ricordare fra questi Carmassi, Kounellis e Castellani. Queste esperienze hanno alimentato la mia attrazione per il mondo dell’arte e giorno dopo giorno è cresciuta in me la passione per questa forma espressiva ma anche la curiosità e l’interesse per la ricerca di mio padre. Ho cominciato allora a comprendere meglio quello che era il vero significato dell’opera del babbo e il valore della sua arte. Ricordo ancora quando iniziavo, quasi timidamente, a pensare di poter realizzare a Pistoia una mostra sull’astrattismo italiano. Ma in quegli anni, parlo degli anni novanta, il nostro territorio non era molto sensibile a certi input. Ma chi era veramente l’artista Chiavacci e quale era il valore e il significato della sua arte in relazione alla sua epoca l’ho capito molto tempo dopo, ed è significativo che a questa mia crescita abbia contribuito in modo determinante il web. È stato anche questo immenso strumento che mi ha permesso di scoprire, vedere, capire e indagare il significato dell’arte astratta, che non solo è importante, ma è grandiosa, come tutta la grande arte italiana. E da cultore dell’immagine, ho iniziato ad approfondire la fotografia in arte, soprattutto l’astrattismo fotografico, che era una delle forme espressive del percorso creativo del babbo. Poi tramite un collezionista delle sue opere, Piergiorgio Fornello, ho incontrato la galleria d’arte Die Mauer arte contemporanea, e lì finalmente ho trovato un interlocutore capace di recepire questa mia conoscenza e iniziare un percorso di valorizzazione dell’opera di Gianfranco Chiavacci.
Fermiamoci un istante. Dal tuo discorrere ho estrapolato tre parole: arte, astrattismo, immagine. E tutte raccontano già da sole del personaggio che è stato l’artista Chiavacci. Mi parli adesso un poco di lui? Ma non da figlio, di quello qualcosa hai già detto. Parlami di Chiavacci da appassionato della sua arte.
Non è cosa facile. Brevemente ti dico che era nato il 1 dicembre 1936 ed è morto il 1 settembre 2011 a Pistoia, dove ha sempre lavorato e vissuto; e questa la dice lunga sull’attaccamento che ha avuto per la sua città. Per quanto riguarda il suo lavoro e il valore che gli viene attribuito nel campo dell’astrazione e dell’arte in generale, parlano per me le attestazioni e i riconoscimenti che nel tempo gli vengono riconosciuti da parte della critica e del collezionismo internazionale. Quello che certamente posso affermare e che, dopo aver fatto nel 1958 “tabula rasa” di tutto ciò che aveva prodotto in precedenza, anche se probabilmente non era molto, quello che da lui è stato fatto successivamente è la chiara dimostrazione del suo talento di visionario precursore, e della genialità delle sue intuizioni.
Mi hai detto, prima di iniziare l’intervista, che molto della sua ricerca è legata anche al “mondo” dell’informatica.
Esatto. Quel “mondo” rappresenta per lui un ulteriore motivo di scoperta e di ricerca rispetto alle prime esperienze giovanili, anche se gli va riconosciuto che già a vent’anni le sue opere avevano raggiunto una forza espressiva che raramente si riscontra in artisti di quell’età. E questo avviene quando, verso la fine degli anni cinquanta, iniziò a lavorare in banca, ed entrò in contatto con quelli che all’epoca erano degli enormi calcolatori, i padri degli attuali computer. E ne rimase affascinato. Non tanto dallo strumento in sé, ma dalla logica che è alla base del suo funzionamento; vale a dire la programmazione e il codice binario. Si innamora immediatamente di questo nuovo linguaggio intuendone la portata epocale, e decide di inserirlo nel suo processo creativo artistico. Ed è questa un’intuizione che posso tranquillamente affermare aver avuto lui per primo, perlomeno in Italia e con questa intensità di indagine. E la portata rivoluzionaria della sua arte nasce proprio da questo connubio fra codice binario e spazio pittorico. Arte e cifra binaria, che erano fino ad allora distanti e separati, entrano per la prima volta in dialogo attraverso il concetto di rete. Con Chiavacci due epocali rivoluzioni tecnologiche: la cifra logica e il fenomeno rete, entrano nel processo creativo artistico. Per la prima volta lo spazio pittorico viene elaborato attraverso un reticolo che ha origine dalla logica binaria, nata per essere ben altro. E in quel periodo risulterà una cosa assolutamente unica e innovativa.
Tu mi stai parlando di un’arte che tuo padre ha rappresentato ai massimi livelli, ma che sembra appartenere a un qualcosa che ti aspetteresti nascere in ambienti elitari, annidati e radicati nelle grandi città. Invece partiamo da Pistoia, che è forse ai margini di quel grande mondo artistico d’avanguardia. Come ti spieghi che in questo contesto “periferico” si sviluppi il genio creativo di tuo padre e quella sua grande intuizione?
L’idea che mi sono fatta, che nasce prevalentemente da sue descrizioni, è questa: lui, giovanissimo, aveva uno zio a Firenze e spesso lo andava a trovare. E con questa motivazione, quasi sempre in compagnia dell’amico Luigi, partiva da Cireglio dove era nato, arrivando nella grande Firenze, culla dell’arte, per visitare i monumenti, i palazzi, i musei, le grandi gallerie come gli Uffizi e forse anche le prima gallerie d’arte. La stessa cosa avvenne poi con Roma, quando la sorella si sposò e si trasferì nella Capitale. È questo, a parer mio, il motivo che influenzerà per sempre il babbo: una innata curiosità intellettuale che lo porta a “respirare” sin da piccolo l’arte in tutte le sue sfumature. Ed è proprio a Roma che rimane “folgorato” nel ’57 quando ha l’occasione di ammirare alcune opere di Pollock inserite in una collettiva dei più grandi artisti dell’epoca. Lui già a quel tempo dipingeva, ma quella mostra è lo spartiacque. Da una licenza da militare torna a Pistoia e distrugge tutto ciò che sino ad allora aveva dipinto. E la sua ricerca riparte proprio da lì. Rielabora a modo suo quell’intreccio di “connessioni”, forse intraviste nel padre dell’espressionismo astratto, sino a quando, come ti ho detto, incontra il codice binario che sarà la chiave che darà origine al suo reticolo, dando il via a quella che lui stesso definirà la sua grammatica: la Binarietà.
Aveva fatto un qualche percorso di studi specialistici?
No, era diplomato ragioniere. Ma tra i numeri che padroneggiava e il codice binario esiste una strettissima comunanza. Aveva sì studiato ragioneria, ma quasi istintivamente era portato verso un altro genere di cultura. Pensa che quattordicenne aveva voluto in dono, cosa abbastanza inconsueta per quell’età, la Storia della Letteratura Italiana di De Sanctis. Segno della propria curiosità umanistica, che ho successivamente ritrovato guardando con attenzione gli oltre tremila libri che fanno parte della sua biblioteca. E paradossalmente tra quei tremila sono pochissimi i libri d’arte. Quindi, fondamentalmente è un autodidatta, con uno sguardo molto attento verso la filosofia e la logica. E a chi sa guardarle con occhi attenti, non sfugge che filosofia e teoria cibernetica si ritrovano nelle composizioni che iniziano dal ’63. Periodo in cui rielabora una sua personalissima idea di bit”, fondendo insieme cibernetica e arte.
Guardandomi attorno in questa riproposizione di quello che poteva essere il suo atelier, noto che non esistono quadri o fotografie che raffigurano persone, cose o paesaggi. Ogni opera è schematica, essenziale, con colori netti, primari. E tutte, almeno per me che sono assolutamente ignaro di cosa sia questo tipo di arte, hanno un qualcosa di quasi visionario. È un termine che si può accostare all’opera del tuo babbo?
Assolutamente sì! Lui è stato un grande visionario. Infatti, sulla visionarietà di Chiavacci nessuno discute. Critici, intenditori, esperti, galleristi e appassionati d’arte, nel parlare di lui utilizzano spessissimo questo termine. Geniale, unico, visionario; sono questi i tre vocaboli che più lo rappresentano e che da anni mi sento ripetere in ogni occasione. E come hai notato, niente qua dentro si avvicina alla figurazione. Molti artisti della sua generazione hanno esplorato differenti linguaggi, ma quasi tutti però passando per la figurazione. Lui no; non l’ha mai percorsa quella via. È evidente che aveva trovato immediatamente la sua strada nell’astrazione.
Esiste poi la fase della fotografia.
Sì, inizia nel 1968. E lo fa perché concettualmente la fotocamera risponde perfettamente a quello che è il concetto di codice binario. Lo zero e l’uno. L’acceso e lo spento. La luce e il buio. Perché questa è l’essenza della fotografia. E anche nelle sue opere di fotografia la sperimentazione è tutto, come ribadisce in un suo scritto degli anni settanta, nel quale evidenzia come non possa esserci creazione senza sperimentazione. E anche nelle sue opere fotografiche non esistono “composizioni”, ma un’attenta indagine sull’accumulo di luce e, inizialmente, sul fenomeno rete.
Il paradosso che però mi salta agli occhi è l’uso del mezzo fotografico, nato chiaramente per rappresentare la realtà. Qui, in queste opere che vedo, manca del tutto.
Volutamente manca. Lui disse a proposito del suo lavoro: «In fotografia si può operare in due modi: da un punto di vista documentario, e allora racconti; da un punto di vista sperimentale, e allora crei.» Chiavacci va volutamente oltre l’utilizzo convenzionale del mezzo fotografico, così come ha fatto con il calcolatore. Ha studiato la logica che è alla base degli strumenti e l’ha applicata al suo fare arte. Forse anche perché voleva trovare i limiti della propria sperimentazione e della teoria che lui chiamava Binarietà. E questo l’ha fatto per tutta la vita. Tanto che nel 2006 compose un’opera alla quale dette il nome di “La morte del bit”, affermando che dato che ormai tutto il mondo è “bittizzato” da quel momento in poi le sue opere non saranno più binarie.
Tuo padre quando muore nel 2011 era già arrivato ai vertici della notorietà?
Era conosciuto, ma la notorietà della sua ricerca era confinata a una cerchia molto ristretta di persone, che peraltro avevano una visione molto parziale della sua vicenda artistica. Basta pensare che fino all’inizio del lavoro fatto con la galleria Die Mauer, tutta la sua ricerca fotografica era totalmente sconosciuta e incompresa, mentre oggi è riconosciuta come determinante per tutta la sua arte. La crescente attenzione verso la sua ricerca è principalmente frutto dell’indubbia qualità e unicità del suo lavoro, ma anche di un lungo e complesso lavoro di studio e approfondimento iniziato poco prima della sua scomparsa, attraverso la collaborazione con la galleria di Prato, la pubblicazione dei primi libri e la presenza di sue opere in importanti fiere e mostre, fino alla recentissima consacrazione di Paris Photo.
E qui arriviamo a quello che è attualmente il tuo impegno: far conoscere al grandissimo pubblico l’opera di Gianfranco Chiavacci.
Diciamo più esattamente che io vorrei fare in modo di collocare il lavoro di Chiavacci dove non più io, ma un numero sempre crescente di esperti e appassionati dicono che meriti di stare: fra i più importanti artisti internazionali del secondo novecento.
E questo tuo lavoro quando è iniziato?
Io lo dato al 1999 quando realizzai un CD ROM nel quali inserii una selezione delle sue opere, facendone poi dono a tutti gli esperti del settore che in quel momento conoscevo, e fortunatamente anche a colui che oggi è il gallerista di cui parlavo prima. Ne rimase entusiasta e lo mostrò ad alcuni suoi amici appassionati d’arte, che però all’epoca non seppero comprendere né il valore innovativo di quel nuovo linguaggio, né la portata internazionale della vicenda artistica del babbo. Probabilmente cercavano il “come” aveva fatto, e non il “perché”. E in questo tipo d’arte è il “perché” l’elemento predominante. Il “come” appartiene all’artigianato.
Quindi è grazie alla collaborazione con questa galleria pratese che è iniziato il processo di valorizzazione a livello internazionale?
Esatto. Abbiamo iniziato con un’opera di approfondimento sulla fotografia del babbo, per poi estenderci gradualmente a rileggere tutta la sua vasta produzione artistica, sino ad arrivare a oggi con una visione quasi completa di tutto il suo mondo. Ma anche se i risultati conseguiti fino a oggi sono importantissimi, siamo consapevoli che c’è ancora molto lavoro da fare.
Risultati che già ora hanno portato a esporre in posti importantissimi tipo New York.
Siamo partiti nel 2011 esponendo a Prato una selezione di fotografie e opere su carta. Nel 2012 eravamo a Milano a MIA FAIR con una grande mostra con oltre cento fotografie e una selezione di opere pittoriche. Nello stesso anno pubblicammo il primo libro corredato da un importante testo di Angela Madesani. Poi fu la volta della mostra a Spoleto con il museo di Palazzo Collicola che sotto la direzione di Gianluca Marziani dedicò a Chiavacci un’importante retrospettiva pittorica. L’anno successivo eravamo a Pistoia, a Palazzo Fabroni, dove per la prima volta esponemmo un’ampia retrospettiva sulla parte fotografica, partendo dagli inizi dei primi anni settanta e arrivando fino alle opere della metà degli anni ottanta. Anche lì contestualizzammo le fotografie con opere inerenti a quelle tematiche. Ne nacque poi un libro grazie anche al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio che ancora oggi è molto apprezzato. Successivamente iniziarono i rapporti con l’estero. La prima uscita internazionale fu Lugano con la fiera dedicata alle opere su carta, in cui Chiavacci è davvero un maestro. Poi venne la prima presenza francese con Fotofever, una fiera minore ma molto importante. Infine una galleria americana mi contattò, attratta dalla qualità della ricerca di Chiavacci, e dopo pochi mesi erano già in Italia per scoprire il suo lavoro e proporci una collaborazione che ha portato l’arte di Chiavacci oltre oceano: Chicago, Miami, Los Angeles e infine New York con due edizioni di The Photography Show e con la mostra antologica da Sous Les Etoiles Gallery che rappresenta Chiavacci negli Stati Uniti. Da questa collaborazione fra la galleria italiana quella americana è arrivata la consacrazione di Chiavacci a Paris Photo. Aver ottenuto questo riconoscimento dal più prestigioso, qualificato e selettivo comitato scientifico di fotografia del mondo che ha accettato il nostro progetto su Chiavacci è stata davvero una soddisfazione immensa, un premio importante al tanto lavoro svolto in questi ultimi anni, ma soprattutto all’eccezionale qualità dell’arte di Chiavacci.
Un impegno quindi che va ben oltre il semplice voler mantenere vivo un ricordo.
Sì. La mia intenzione va ben oltre il voler mantenere vivo un ricordo; la mia volontà è quella di restituire alla grande arte italiana uno dei suoi più importanti protagonisti. Un impegno difficile, faticoso e costoso, tenuto conto anche che la galleria che mi segue è comunque una realtà giovane nel panorama delle gallerie italiane. Ma è anche quella che ha avuto e ha il grande merito di credere nel valore dell’arte italiana e prevalentemente toscana e di voler ostinatamente fare un lavoro di ricerca pur conoscendone le difficoltà. Una galleria che ha saputo comprendere immediatamente l’importanza dell’opera di Chiavacci e ha avuto l’intelligenza e la capacità di investirci. Tutto questo ci riempie di orgoglio.
Parlando di “fatica”, quanto ti è costato arrivare a comprendere il vero senso dell’opera visionaria del babbo?
È stato difficile, quasi folle, lo ammetto. E ancora oggi non ne ho piena conoscenza. Avere una comprensione completa dell’opera di Chiavacci è difficile, dati i risvolti filosofici e concettuali che hanno le sue opere, specialmente quelle che partono dagli anni ottanta in poi, dove le interazioni fra varie discipline si fanno via via più complesse. Ti dico soltanto che anche recentemente una studiosa francese è venuta da Parigi espressamente per conoscere e studiare le sue opere. E queste sono le cose che ti motivano e ti spingono ad affrontare le difficoltà e ad andare avanti. Come il crescente numero di studenti che propongono tesi su mio padre. È un lavoro di “avvicinamento” il mio, complesso, ma ricchissimo di soddisfazioni.
Pistoia e l’opera di Chiavacci.
Questo è un tasto dolente. Sinceramente mi sarei aspettato qualcosa di più. Io ho cercato in vari modi di coinvolgere le Istituzioni, ma non è facile. E questo apparente disinteresse cozza a esempio con quanto avverrà nel 2020, quando uscirà negli Stati Uniti una pubblicazione curata dal direttore di un importantissimo museo americano che ha fortemente voluto parlare di Chiavacci in un libro a cui sta lavorando. Tutto questo, oltre che molto gratificante, è probabile che possa portare alla realizzazione una mostra americana. Ma è presto per parlarne, vedremo.
Parlami adesso dei vostri progetti futuri.
A breve faremo una mostra a Milano curata da un gallerista che dopo una lunga esperienza americana ha voluto riaprire anche in Italia. È questa un’occasione che potrebbe sfociare in una collaborazione più strutturata. C’è poi il decennale di MIA FAIR, la fiera della fotografia di Milano, nella quale verrà proposto un progetto sulla fotografia italiana degli anni ’60 e ’70 e dove dovrebbero esserci opere di Chiavacci, e, sempre a Milano, una collettiva all’interno del Palazzo della Regione. Ci sono poi contatti importanti con la direzione del Jeu de Paume a Parigi, rinnovati direttamente dal suo direttore in occasione di Paris Photo. E anche questo potrebbe concretizzarsi prossimamente in una grande mostra fotografica parigina. Inoltre, sembra che un’importante museo italiano di fotografia voglia inserire Chiavacci in una grande mostra, con la conseguente pubblicazione scientifica.
Quindi, immagino che le tue siano giornate piene di impegni.
Decisamente. Anche perché assieme a tutto quanto ti ho appena detto, vorrei anche realizzare un libro tutto mio; divulgativo, nel quale si parli in modo semplice ma completo di tutti gli aspetti della vicenda artistica di Gianfranco Chiavacci. E poi c’è la volontà di realizzare un catalogo ragionato dell’intera sua opera, cosa che per la prima volta inizio a veder davvero come realizzabile. Non tanto tecnicamente ma proprio come visione di tutta la sua ricerca.
In sintesi, il tuo impegno è teso al ricordo dell’opera del babbo e alla valorizzazione della sua figura d’artista internazionale. Un qualcosa di estremamente gratificante immagino.
Sì, devo ammetterlo. E tutto ciò va oltre il fatto che stiamo palando di mio padre. Ho scoperto di avere tra le mani le opere di un vero artista con una delle ricerche in arte di grandissimo spessore per tematiche e ricchezza di intuizione. Ed è grazie all’apporto e alla collaborazione ricevuta da due galleristi pratesi “pazzi” come me, che questo sta avvenendo più rapidamente di quanto sperassi.
Termina qua la mia chiacchierata con Carlo Chiavacci della quale per ovvi motivi ho dovuto fare una sintesi. Però le cose che lui mi ha detto sono state molte altre, e hanno spaziato in tantissimi campi che vanno dal significato delle opere astratte del padre e dei maggiori artisti internazionali, alle difficoltà non solamente pratiche di arrivare a esporre nelle più grandi metropoli mondiali. Una chiacchierata appassionata e interessante, nella quale Carlo si è dimostrato un vero esperto, affrontando i più svariati argomenti con una chiarezza e una competenza che gli fa onore.
Grazie quindi a lui e alla sua opera di valorizzazione di un grande artista come Gianfranco Chiavacci.
Per arteventi news
Enrico Miniati
Le fotografie sono pubblicate per gentile concessione di Carlo Chiavacci