Mario Carnicelli. L’arte di immortalare il tempo.
Fare delle fotografie è una cosa all’apparenza facilissima. Fare però di un’immagine un qualcosa che rimanga immutabile nonostante il trascorrere degli anni, è un’arte riservata a pochissimi. E quei pochi possiamo senza ombra di dubbio definirli “maestri”.
Uno di questi maestri del fotografare è Mario Carnicelli.
Lo incontro nella sua splendida dimora pistoiese assieme a Solimano Pezzella, fotografo ufficiale della nostra rivista, anch’esso bravissimo e avviatissimo nel seguire le orme di Carnicelli nel campo della fotografia artistica.
Ed entrare in quella casa è come aprire una porta sul tempo. Quelle stupende stanze coperte da grandi fotografie destano in chi ha la fortuna di vederle la sensazione che il passare del tempo, visto attraverso le foto di Mario Carnicelli, sia un poco come il vino che invecchia nelle grandi botti di rovere delle più prestigiose cantine. Le immagini legate a fatti, luoghi e periodi ormai lontani sembrano stare lì a dimostrare che il tempo è soltanto un’unità di misura, ma che tra attualità e già vissuto non esistono sostanziali differenze se chi l’ha fotografato è un maestro. Il tempo dona a quelle foto, proprio come è solito fare con il buon vino, sapore, magia, voglia di fermarsi ad assaporarle con gli occhi e con le emozioni.
Mario Carnicelli è pistoiese d’adozione poiché è nato ad Atri, in provincia di Teramo. Vuole dirci come è giunto a Pistoia?
È una storia lunga, – inizia a raccontare – e comincia con mio padre che nel ’46 del secolo scorso decise di andarsene da Atri. E il motivo di questa scelta fu abbastanza inconcepibile se analizziamo quel periodo. Mio padre era fotografo, aveva un’attività economica ben avviata ed era stato segretario del locale Partito Comunista, cosa questa che lo aveva però reso inviso alla nuova dirigenza politica e amministrativa locale, che in realtà del tutto nuova non era, dato che si trattava più o meno delle stesse persone che avevano detenuto il potere nel periodo fascista. Può sembrare inconcepibile, ma questo era già iniziato nei giorni immediatamente successivi alla liberazione dell’Abruzzo dove erano stati i polacchi a scacciare i tedeschi; però erano gli stessi polacchi che si erano visti occupare militarmente e ferocemente il proprio Paese dalle truppe staliniste. E per questo motivo erano ferocemente anticomunisti. E lo dimostrarono immediatamente restituendo a chi ideologicamente era più vicino a loro le “chiavi della città”, incuranti del loro coinvolgimento diretto nel precedente regime. Addirittura fecero scrivere “Vietato ai Militari” sulla parete dello stabile dove mio padre aveva il negozio, proibendo in questo modo che venisse frequentato da quelli che erano i migliori clienti. Da questo derivò poi la quasi impossibilità di lavorare e la necessità di dare una risposta al problema del sostentamento di tutta la famiglia. E la soluzione fu offerta da alcuni parenti che già da tempo vivevano a Pistoia. Mio padre venne qua, rilevò un negozio fotografico, Foto Fellini, e dopo un paio d’anni fece venire mia madre, me e i miei fratelli. E da allora ho sempre vissuto qua.
Il padre fotografo è stato il suo primo maestro?
In pratica sì. Sia io che mio fratello maggiore abbiamo appreso da lui i primi segreti del mestiere.
C’è differenza tra fare fotografie, gestire un negozio e diventare un vero fotografo?
Diciamo che il diventare fotografo professionista può essere una conseguenza se sei predisposto e hai una sensibilità diversa nel vedere le cose attraverso l’obbiettivo.
Ma a parte l’esempio del padre e del fratello, come si diventa Mario Carnicelli?
Anche questa è una storia lunga. Parte da quando ero ragazzo e nel fotografare avevo fortissimo il senso antropologico. Amavo fotografare l’uomo, inteso come umanità. E con il tempo mi accorsi che spessissimo riuscivo a trovare i soggetti più interessanti nel pieno dei comizi, delle manifestazioni politiche, degli scioperi operai. Questo mi portò a impegnarmi tantissimo in questa ricerca e in seguito a fare una mostra a Milano, dentro al grattacielo Pirelli. Il titolo fu “Psicologia della folla” e la dice lunga sul significato delle mie fotografie. Poi ci fu il funerale di Togliatti e le relative immagini, anch’esse soggetto di successive mostre in varie parti d’Italia. Ma al tempo ero già impegnatissimo come fotografo professionista.
Mi racconta come iniziò veramente con il mestiere di fotografo free lance?
Con un concorso organizzato dalla Ferrania, una notissima casa produttrice di pellicole. Partecipai e vinsi; e il premio era una borsa di studio per un soggiorno negli Stati Uniti. In America come si diceva negli anni ’60. Un premio bellissimo per chi come me l’aveva idealizzata guardandola attraverso le immagini dei film che andavano per la maggiore. E ricordo ancora l’effetto fantastico che mi fece lo skyline dei grattacieli proiettati nel cielo notturno visto dall’aereo sul quale viaggiavo. Un qualcosa di incredibile rispetto ai nostri paesaggi urbani. E poi muovendomi per le città mi immaginavo di vedermi venire incontro i grandi attori: Marlon Brando, Humphrey Bogart, eccetera. Passai così i primi giorni a guardarmi attorno, estasiato, senza trovare assolutamente alcunché da fotografare, benché fossi lì proprio per quello. Poi qualcosa scattò e l’atmosfera, gli odori del cibo, le immagini di vita quotidiana iniziarono a darmi gli spunti per fare una lunghissima serie di scatti.
Scatti che però non utilizzò immediatamente.
Esatto; le ho detto che è una storia lunga. E dato che ci vorrebbe molto per raccontarla tutta, la faccio breve e le dico che in America restai molto più tempo di quello che era previsto. Iniziai a lavorare per grandi testate giornalistiche quali l’Espresso, Panorama e La Domenica del Corriere. Poi, tornato in Italia, volevo a tutti i costi andare nel Vietnam del Nord per fotografare la guerra vista dall’altra parte. Ma questo, nonostante tutti gli sforzi che feci, per varie ragioni non mi fu possibile. E proprio in quel periodo misi momentaneamente fine al mio mestiere di fotografo free lance. Mi presi un anno sabbatico che durò in realtà quasi… trent’anni, mettendo in un angolo le migliaia e migliaia di fotografie che avevo fatto in moltissime parti del mondo.
Come mai?
Capitò che a Firenze, in Piazza Duomo, vendevano lo studio fotografico del ritrattista Lumachi. Lo acquistai e nel ’71 aprii un grande negozio di articoli per la fotografia. Perciò per un lunghissimo periodo diventai un commerciante. Era un buon momento quello per farlo, dato che iniziava il boom della fotografia e gli affari prosperavano. Quando poi lasciai quella attività, ripresi a occuparmi del mio archivio fotografico assieme a Baerbel Reinhard, una docente di fotografia all’Università di Firenze. E per prima cosa organizzammo a Pistoia una mostra con le fotografie del funerale di Togliatti. La stessa andò successivamente a Roma, sino a giungere a Montecitorio. Arrivammo poi alle foto fatte in America e al grandissimo entusiasmo che queste produssero sugli appassionati inglesi.
Veniamo a queste foto. L’America ritratta in maniera diversa da quello che è il classico stereotipo che ci potremmo immaginare.
Sì, e qualcosa le ho già detto. Non erano i grattacieli, le auto o le cose nuove e fantastiche che mi colpivano, ma le scene di vita quotidiana. E come è mia attitudine era sempre l’uomo il soggetto principale di ogni foto.
Un uomo diverso dall’uomo medio italiano?
Come immagine diciamo di sì, ma l’uomo è uguale da tutte le parti. E il suo modo di esprimersi, a parte la lingua che usa, è sempre lo stesso. Gli sguardi, il gesticolare, le pose, le abitudini, il modo di comportarsi sono sempre gli stessi. Bisogna soltanto sapersene accorgere.
Sono fotografie fatte negli anni ’60, eppure sono attualissime.
Esatto. Ed è proprio questo che piace ai grandi galleristi. Il fatto di essere apparentemente senza tempo, oltre ad aver rappresentato un vero e proprio punto di rottura nell’immagine classica che si tendeva a dare dell’America. Tra l’altro quello è un periodo ricchissimo di storia e di fatti. E il vederlo attraverso le foto e le immagini di una vita di soggetti che potremmo definire “qualunque” piace molto. Tra l’altro i miei viaggi in America sono stati diversi, come diverse sono state le occasioni che lì mi si offrivano. Dalle “Pantere Nere” ai comizi di Malcom X, si può dire che per chi come me andava in cerca di umanità, quei tempi erano una vera miniera d’oro.
Quindi lei non era il cronista alla ricerca di un’immagine choc da vendere.
No, assolutamente. Quello non è il mio genere. Diciamo che mi sentivo più un ricercatore di immagini. E alla base di questa ricerca c’era già un embrione di progetto basato sempre sull’uomo. Progetto che in maniera naturale si è successivamente concretizzato.
Tornando un momento all’esperienza fiorentina, come ha vissuto quel periodo?
In modo appassionato. Anche quello era per me un vero laboratorio sociologico. Da Piazza del Duomo a Firenze si può dire che passa tutto il mondo. E assieme alle persone passava anche la storia. Pensi al momento dell’abbattimento del muro di Berlino e alla possibilità di viaggiare che ne è derivata per quei popoli dell’Est, Cina compresa. E io li ho visti da una posizione privilegiata. Li ho visti cambiare nel corso degli anni, per diventare sempre meno spaesati e privi di mezzi.
Mario Carnicelli e la famiglia. “Pesa” un personaggio famoso come lei?
Direi proprio di no. Anzi, diciamo che non se ne sono neanche accorti. È un po’ come un generale che comanda migliaia di soldati, ma che una volta a casa viene “comandato” da moglie e figli.
Lei ha una figlia. Ha seguito le sue orme?
Non direttamente. Ha studiato al Polimoda di Firenze e poi è entrata da Ferragamo e lì è rimasta. Diciamo che si occupa di immagine in un modo diverso.
Ha mai pensato di lasciare Pistoia per trasferirsi in qualche altra città?
No. Anche quando avevo il negozio a Firenze ho sempre fatto il pendolare. Pistoia rappresentava la famiglia, gli amici, il passato. E quindi sono sempre voluto rimanere qua.
Vorrei tornare alla mostra sul funerale di Togliatti e a quello che ha rappresentato per lei. Indubbiamente dal punto di vista professionale è stato un grandissimo successo. Dal punto di vista umano, la considera in qualche modo una rivalutazione di quanto accaduto a suo padre?
Non tanto una rivalutazione di quei fatti, diciamo piuttosto la soddisfazione di una presa d’atto del fatto che noi eravamo gente di sinistra. Io avevo già iniziato il mio lavoro sull’uomo con la mostra di Milano di cui le ho parlato. Quando Togliatti morì, venni chiamato dalla Federazione Comunista Toscana e mi chiesero se volevo fare un lavoro sul funerale. E a parte l’affinità politica e la voglia di esserci, considerai quell’evento un momento speciale nel quale portare avanti la mia ricerca sull’umanità e le sue espressioni.
C’è un episodio speciale legato a quell’evento?
Sì, tra i tanti uno in particolare rimane per me indimenticabile, ma che ho scoperto soltanto circa cinquant’anni dopo. Ed è legato ai grandi personaggi che a turno si alternano nel picchetto d’onore ai quattro lati del feretro. Tra questi vi era Renato Guttuso e io ovviamente lo fotografai come feci con moltissimi altri. Però a Guttuso ero già stato presentato alcuni giorni prima del funerale e avevamo scambiato assieme poche parole di circostanza. Quando lo fotografai accanto alla bara di Togliatti, mi accorsi che mi aveva visto e riconosciuto, ma tutto finì lì. Guttuso in seguito, alcuni anni dopo, realizzò un grande quadro sul funerale – oggi esposto a Bologna -, assemblando e incollando su tela una serie infinita di ritagli fotografici che lui stesso aveva fatto. Cinquanta anni dopo anch’io volli fare qualcosa del genere e presi a fotografare quell’opera e a estrarre dei particolari che poi rimontai in una mia personale interpretazione. E grandissima fu l’emozione quando in un ingrandimento casualmente scoprimmo che tra le tessere che componevano il mosaico di Guttuso, una era proprio la mia fotografia ripreso nell’atto che ero solito fare quanto facevo le riprese. Guttuso a mia insaputa mi aveva fotografato e inserito in quell’opera a significare il fotografo come testimone e non come cronista.
Bellissimo. E poi? Come sono diventate quello che adesso sono?
Si può dire grazie alla volontà e alla capacità di Baerbel Reinhard che prese coscienza della forza di queste fotografie. Era il 50° anniversario della morte di Togliatti e lei propose al Sindaco di organizzare un evento. E tutto nacque da lì.
Sono fotografie stupende, anche per chi che come me riesce soltanto a distinguere cosa mi piace da cosa no. Noto però che sono quasi prive di simboli politici. Non sembra esserci la volontà di fare un apologia del personaggio. Mi sbaglio?
Ha ragione invece. Io cercavo ancora una volta l’uomo. Il suo dolore e lo sgomento dipinto sui visi, sugli atteggiamenti, sugli abiti “buoni” indossati per l’occasione. Sui pugni chiusi alzati, sulle croci portate al collo spesso assieme ai fazzoletti rossi. Pablo Neruda mandò a dire: «Immaginatevi che sia con voi a piangere» per descrivere a parole quel dolore, io cercai di fare altrettanto attraverso le mie fotografie. Era un mondo e un momento particolare. E quello che colpiva immediatamente era il silenzio assoluto nonostante la presenza sul posto di un milione di persone.
La scelta di utilizzare prevalentemente il “bianco e nero” è dettata dalle tecniche dell’epoca o è un qualcosa di più affine al fotografo Mario Carnicelli?
Al tempo del funerale era predominante l’uso del bianco e nero e questo è uno dei motivi. L’altro è perché tecnicamente mi si addiceva e l’espressività dei visi rende molto meglio fatto in quel modo. E poi un funerale non si presta all’uso dei colori.
E in seguito all’eco positivo delle varie mostre, arrivarono i grandi galleristi d’oltre mare, i libri fotografici e la fama di grande fotografo.
Sì. Dopo Roma ho fatto mostre in varie parti d’Europa. E dall’Inghilterra mi sono arrivate le prime proposte per realizzare libri e personali che hanno riscosso un notevolissimo successo.
Veniamo all’America della fine degli anni ’60 e all’interesse che le sue foto suscitano negli americani. Come la vivono la loro storia vista attraverso gli occhi di un italiano?
In maniera splendida. Soprattutto con molta curiosità. E sono convinto che siano affascinati dal nostro passato, dalla nostra storia e dalla nostra cultura, oltre che dal nostro modo di vedere le cose. Le mie foto possiamo dire che offrono agli americani il modo di vedersi dall’esterno attraverso gli occhi di chi li scopre per la prima volta.
I progetti ai quali sta lavorando attualmente?
Ne ho vari. Uno riguarda un lungometraggio che la televisione tedesca sta progettando su di me e le mie opere. E sempre legato a quello è previsto che vada a Berlino a scattare fotografie da inserire all’interno del programma. Poi un viaggio a Parigi per la presentazione di un libro fotografico. Una mostra negli Stati Uniti organizzata da Fetterman, uno dei più grandi galleristi mondiali che presenterà le opere di sette fotografi, tra i quali ho avuto l’onore di essere inserito.
Stiamo parlando di grandissimi riconoscimenti a livello mondiale, legati alla sua produzione fatta nel tempo. Attualmente invece a cosa lavora?
A qualcosa che coltivo da circa dodici anni. E che apparentemente potrebbe sembrare il più facile da realizzare. Ma poi ti accorgi che così non è. È da tempo che a intervalli di anni sto fotografando il paese dove sono nato. Atri ha una storia antichissima, addirittura pre romana e i visi, la cultura, il modo di vivere degli atriani sono per me che ci sono nato una notevole fonte di ispirazione. Già adesso ho raccolto circa ventimila scatti, tutti fatti con pellicola tradizionale. Poi occorre selezionare le fotografie e organizzarne la pubblicazione e la mostra Atri. E queste sono cose che hanno un costo notevole per un paese che conta soltanto circa dodicimila abitanti. Io ho deciso che le mie fotografie saranno messe a disposizione gratuitamente, però come ho detto tutto il resto ha un costo. E parlando delle foto devo ammettere che pur fotografando visi e situazioni familiari mi rendo maggiormente conto di come tutto il mondo alla fine sia sempre il medesimo. Fotografare Atri equivale per me al trovare le stesse situazioni che provo nel riprendere un quartiere di New York oppure una cittadina nell’India. L’uomo, come ho già detto, è lo stesso ovunque si trovi.
Quindi quello di essere “profeta in patria” possiamo definirlo come il prossimo sogno di Mario Carnicelli?
In un certo senso sì. Ci terrei molto a fare quella mostra. Ma più che di un sogno preferisco parlare di un qualcosa di materiale da realizzare, la vorrei fare per… – e qui Mario Carnicelli, per la prima volta in tutta l’intervista prende del tempo. Non risponde subito. Lascia passare qualche attimo nel quale sembra voler trovare le parole giuste per dare un significato reale a quello che ho semplicemente definito un sogno.
Vorrei farla per tracciare un punto – riprende – Per segnare un passaggio.
E su queste parole cariche di significato, passione, amore per la propria professione e per il proprio vissuto si chiude la mia chiacchierata con Mario Carnicelli, il fotografo che nelle sue immagini riesce a fermare il tempo rendendolo al contempo attualissimo.
Per arteventinews
Enrico Miniati
Le fotografie messe a corredo del servizio sono opera di Solimano Pezzella
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