
Alla Sala Gigli di Firenze il “Manuale di sopravvivenza(alla mafia)” di Salvatore Calleri
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Revocato l’ergastolo vero per i mafiosi: un passo indietro nella civiltà giuridica europea.
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A Roma la mafia c’è. La sentenza della Cassazione Penale, Sez. VI, 28 dicembre 2017 (ud. 26 ottobre 2017), n. 57896, infatti, ha accolto il ricorso della Procura generale di Roma contro la sentenza di Appello che aveva fatto cadere l’aggravante mafiosa – declinandola a semplice associazione per delinquere – nei confronti del clan Fasciani, riconoscendo “il carattere mafioso del gruppo”.
Ho iniziato a rendermi conto della presenza della mafia e dei mafiosi a Roma quando avevo 14 anni.
Sì, va bene, ero abbastanza sveglio e scafato, visto il contesto in cui sono cresciuto, ma strano che gli adulti, soprattutto quelli che vestivano la toga di magistrato, non se ne siano mai accorti prima. Probabilmente risiedevano nei quartieri bene di Roma, ancora non contaminati dalle presenze del crimine organizzato.
Eppure, già all’epoca, parlo degli anni ’70, in alcune zone della periferia romana erano forti le presenze di esponenti della camorra, ‘ndrangheta e mafia siciliana.
Le collaborazioni con la rete criminale romana, dominata dalla banda della Magliana, erano già fitte fitte. Proprio in quello stesso periodo, arrivano a Roma i Casamonica.
Anche loro iniziano a collaborare con la malavita della Capitale, fornendo la manovalanza.
Certo, in quegli stessi anni, secondo il partito dei negazionisti, la mafia non esisteva neanche in Sicilia.
Poi, per fortuna, nell’isola qualcuno ha abbattuto, a caro prezzo, quel muro di omertà e con il maxi processo di Palermo riuscì anche a stabilire che in Sicilia imperava cosa nostra.
Eppure, per quella storica sentenza abbiamo dovuto aspettare il 30 gennaio 1992, con un iter processuale iniziato il 10 febbraio 1986.
L’impresa fu ardua, anche perché l’ultima parola spettava sempre al famoso giudice soprannominato l’ “ammazzasentenze”, Corrado Carnevale. Quella volta, a seguito anche di sacrosante pressioni, il processo fu assegnato ad una corte presieduta da un altro giudice.
Già, Falcone e Borsellino, proprio per quel processo e per quello che stavano per iniziare a fare, toccare il livello politico, l’hanno pagata a caro prezzo.
Torniamo nella Capitale.
La mafia a Roma e nel Lazio, fino a poco tempo fa, non esisteva. Già, questa è quello che sostengono, da troppi anni, coloro che hanno permesso l’espansione della criminalità organizzata su tutto il territorio nazionale. Nessuno, per decine di anni, ha messo un argine, o eretto barricate a questa propagazione delle organizzazioni criminali di tipo mafioso. Ora hanno raggiunto e oltrepassato anche le Alpi.
“La mafia non c’è perché non ci sono condanne per 416 bis”.
Quante volte ho ascoltato questa corbelleria. Nell’arco degli ultimi anni ne ho dovute sentire tante altre.
C’è qualcuno che addirittura sostiene che la mafia siciliana è stata sconfitta. Peccato che solo dopo due giorni dopo aver ascoltato per l’ennesima volta questa teoria, sono stati eseguiti 104 arresti da Gela a Brescia contro la “stidda”.
La mafia siciliana, a differenza delle altre, fuori dalla terra d’origine, non si fa notare, si nasconde, ma ha un ruolo assai rilevante in tutti i traffici illeciti e negli investimenti dei ricavati in affari leciti.
Come detto, a Roma ora la mafia c’è, grazie anche alla citata sentenza della Cassazione del 28 dicembre 2017.
Finalmente i giudici, in tema di mafia “non tradizionale” o “non storica”, hanno scritto che:
«ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale».
Infatti – prosegue la Corte – «nello schema normativo previsto dall’art. 416-bis c.p. non rientrano solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti, e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma vi rientrano anche le piccole “mafie” con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone), non necessariamente armate (l’essere armati e usare materiale esplodente non è infatti un elemento costitutivo dell’associazione ex art. 416-bis, ma realizza solo un’ulteriore modalità di azione che aggrava responsabilità degli appartenenti), che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi, però, del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento ed omertà».
Si legge ancora nella sentenza «perché sussista la condizione dell’omertà, non è affatto necessaria una generalizzata e sostanziale adesione alla subcultura mafiosa, né una situazione di così generale terrore da impedire qualsiasi atto di ribellione e qualsiasi reazione morale, ma basta che il rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato sia sufficientemente diffuso, anche se non generale; che tale atteggiamento sia dovuto alla paura non tanto di danni all’integrità della propria persona, ma anche solo alla attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti; che sussista la diffusa convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria – denunciando il singolo che compie l’attività intimidatoria – non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose per la ramificazione dell’associazione, la sua efficienza, la sussistenza di altri soggetti non identificabili e forniti di un potere sufficiente per danneggiare chi ha osato contrapporsi».
Tale orientamento – prosegue la Corte – «è stato ribadito affermandosi che non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice».
In sintesi, la Cassazione ribalta quello che era il pensiero della stragrande maggioranza dei giudici che operano nelle regioni del Centro e del Nord. Una sentenza epocale che potrà dare coraggio a a tutti quei magistrati di buona volontà che operano nei territori dove impera il negazionismo.
Renato Scalia