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1 Settembre 2019Per Cosa Nostra è comportamento normale avere un rapporto particolare e strumentale con la religione cattolica, quasi a voler dimostrare di avere Dio dalla propria parte. Mafiosi in prima fila alle feste patronali, devoti e assorti a sbandierare il proprio potere o nelle panche della chiesa del paese a seguire con grande partecipazione la funzione domenicale.
Anche le iniziazioni per diventare uomini d’onore ripetono con qualche variante il Sacramento del Battesimo, quasi ad intraprendere un percorso delittuoso a fianco di uno religioso. Prima si uccide e poi si chiede perdono a Dio, o peggio ancora si uccide in nome di Dio. Il rituale contiene passaggi che utilizzano formule o immagini sacre. È superfluo dire che i comportamenti, nulla hanno di religioso ma, come in un cerimoniale blasfemo, il sacro ed il profano si fondono dando vita al giuramento di fedeltà sulla condotta che il nuovo arrivato dovrà tenere per tutta la vita.
Santini e immagini sacre che bruciano, accompagnati da rituali verbali che cambiano da cosca a cosca, da paese a paese, formule diverse ma enormemente intrise di “religiosità”. Il mafioso è capace di uccidere ferocemente la sera e la mattina dopo andare a messa e fare la comunione in una visione distorta e inconcepibile della propria fede.
Il 9 maggio 1993, Papa Giovanni Paolo II nella valle dei Templi, con un vigore inaspettato, disse “Che sia concordia! Dio ha detto una volta: non uccidere! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è via, verità e vita. Lo dico ai responsabili: Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”. Anche Papa Francesco, poco dopo la sua elezione al soglio di Pietro, il 26 maggio del 2013, fece un accorato appello e alla fine dell’Angelus ricordando la beatificazione di Don Pino Puglisi disse “…preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone, non possono fare questo, non possono fare i nostri fratelli schiavi, dobbiamo pregare il Signore, preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio”. Purtroppo ancora, queste parole di condanna, sono rimaste inascoltate e il mafioso continua a giustificare il proprio operato criminale con un utilizzo strumentale della religione cattolica, come a dimostrare che Dio è al suo fianco. Spesso esternare pubblicamente il proprio rispetto mescolato alla propria religiosità, prende le sembianze di un assurdo spettacolo quando durante le processioni di paese avviene l’inchino di fronte alla casa del boss di turno.
L’impressione visiva e spirituale della processione si scontra con quella quasi rituale dell’inchino. Sotto gli occhi del turista e del profano si svolge quasi fosse un bizzarro e curioso fuori programma, Di contro, questa curiosa antinomia, tesi ed antitesi del bene e del male reca con sé dei segnali precisi che vengono colti da tutti coloro che conoscono il linguaggio gestuale ed omertoso della mafia. E questi segnali vengono lanciati verso coloro che sono coinvolti in fatti delittuosi (gli affiliati) come verso onesti cittadini che con la mafia non hanno niente da spartire.
Compito non facile quindi quello a cui, da sempre, la Chiesa è chiamata. Un compito di grande responsabilità, una pastorale di resistenza forte e continua contro la mafia, libera da qualsiasi possibile e rischiosa ingerenza. Come affermò l’Arcivescovo di Paolo Romeo durante il suo mandato apostolico a Palermo, riferendosi a Don Pino Puglisi durante l’omelia per la sua beatificazione “…la sua azione mirò a rendere presente un altro padre, il Padre Nostro […] niente può essere imposto a tutti per mezzo di “un padrino” […] di nostro c’è solo Dio che ama tutti dentro e fuori la Chiesa…”
Mi sento di fare un’ultima doverosa osservazione.
Sembra che in alcune intercettazioni fatte da Polizia e Carabinieri i boss parlino chiaro: “Niente inchini e omaggi. Non vogliamo Pennacchi. Meno si parla di noi meglio è”. Ecco perché noi di ArteventiNews invece abbiamo deciso di parlarne: perché la conoscenza e l’informazione sta alla base di ogni sistema democratico.
Riporto le parole del collega Paolo Borrometi, direttore della testata “La Spia” e sotto scorta dei Carabinieri dal 2014:
«…il giornalista ha un dovere fondamentale: raccontare i fatti. Perché un Paese può cambiare solo se è informato. Il cambiamento che passa attraverso la cultura e l’informazione. Io ho fatto solo il mio dovere.»
Nessuna paura quindi ad affrontare questioni così delicate sulla legalità. Solo responsabilità nell’esercitare il dovere di cronaca e di informazione.
I mafiosi hanno molta più paura della cultura e dell’informazione che delle retate.
Alessandro Orlando
“La democrazia è la possibilità di rimettere tutto in gioco” (A. Caponnetto)