
Quell’articolo di Montanelli che parlava di “sbirri” .
9 Agosto 2019
Mafia questa sconosciuta.
18 Agosto 2019Ultimamente, scorrendo le pagine di internet che parlavano di mafia, ho trovato una presentazione fatta dallo scrittore, recentemente scomparso, Andrea Camilleri, per un libro scritto da Salvatore Calleri, Presidente della Fondazione Antonino Caponnetto.
La pubblicazione è un insieme di ricordi e di documentazione sulla figura di Antonino Caponnetto, un uomo che è sempre stato in prima linea nella lotta alla mafia. Il libro edito da Diple Edizioni nel 2003 raccoglie gli scritti del magistrato siciliano ma naturalizzato fiorentino, le lettere ai giovani delle scuole e inviate al Presidente della Repubblica ed infine il toccante discorso pronunciato ai funerali di Giovanni Falcone. A testimoniare gli incontri con colleghi, amici, giornalisti e uomini politici ci sono le foto.
Il giudice Caponnetto noto per aver guidato il famoso Pool antimafia di Palermo, dopo l’assassinio di Chinnici pensava che i quattro allievi del magistrato ucciso potessero rappresentare il migliore patrimonio di quell’ufficio e quindi voleva inserire anche loro nel Pool. Era partito da Firenze con l’idea di una squadra di valenti ed esperti magistrati e voleva ripetere anche con la mafia l’esperienza di equipe che aveva funzionato egregiamente anche nella lotta al terrorismo. Pensò a Falcone per l’esperienza e il prestigio acquisiti sul campo, a Di Lello che era stato il pupillo di Rocco Chinnici e su suggerimento di Giovanni Falcone di includere anche Paolo Borsellino, completando infine il Pool inserendo il più anziano Leonardo Guarnotta. Così nacque una equipe ben definita per la quale in seguito vennero in aiuto Caselli e Imposimato, giudici esperti nei processi per terrorismo.
Caponnetto formò il Pool nel novembre 1983 coordinandone l’attività che portò all’arresto più di quattrocento criminali legati a Cosa Nostra e culminò nel maxiprocesso di Palermo, celebrato a partire dal 10 febbraio 1986.
Per far capire quanto anche per me il giudice Caponnetto fosse nel nostro paese un esempio importante per quanto riguarda l’impegno e la forza nel combattere la mafia, confesso che gli indirizzai una lettera nella quale esprimevo tutta la mia ammirazione nei suoi confronti.
La fotocopia della lettera, sotterrata in fondo a un cassetto della scrivania insieme a centinaia di altri miei carteggi, è stata cercata ed è saltata fuori in occasione di questo articolo. Porta la data del 7 gennaio 1993 ed inizia così: “Caro Dott. Caponnetto, questa mia lettera vuole essere un atto di solidarietà al suo operato, un immaginario e sentito abbraccio alla sua persona…”
Molti giovani che come me collaboravano con alcune testate ed avevano seguito negli anni 80 le fasi del maxiprocesso a Cosa Nostra, avendo vissuto i momenti dei barbari attentati a Falcone e Borsellino, identificavano come eroi coloro che erano stati i componenti del Pool.
Ora, leggendo la presentazione fatta da Camilleri mi sono chiesto cosa possa legare, oltre al fatto di essere entrambi siciliani, uno scrittore di gialli famoso in tutto il mondo e un magistrato che ha fatto della lotta alla mafia la sua ragione di vita.
La risposta non è difficile se andiamo a rileggere una delle iconiche frasi pronunciate dal giudice Borsellino “Parlate di mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”.
Ecco il fil rouge, il punto d’incontro che mette in forte relazione Camilleri e Caponnetto. Ognuno con le sue peculiarità e il suo ruolo ma con un forte amore per la propria terra e per una giustizia e una legalità che nel nostro tempo, in questa strana società malata e scalena, sembra non esistere.
Alessandro Orlando
Presentazione di Andrea Camilleri al libro ” Antonino Caponnetto, eroe contromano in difesa della legalità” a cura di Salvatore Calleri.
«Non l’ho mai conosciuto di persona. Mi accorgo d’avere scritto una frase che non corrisponde alla verità, sarebbe più giusto dire che non ci siamo incontrati. Perché il Giudice Caponnetto posso dire d’averlo conosciuto attraverso quello che andava facendo nell’Ufficio Istruzione di Palermo e che i giornali solo parzialmente riferivano. Quando finalmente potei vedere in televisione com’era, due cose mi colpirono molto: la sua apparente fragilità fisica alla quale doveva corrispondere certamente una grandissima forza morale e il suo accento fiorentino. Avevo sempre pensato, per via di quel cognome così meridionale, che dovesse parlare tradendo una certa cadenza siciliana. Mi restò l’impressione di un signore di altri tempi per i modi e le espressioni, ma sapevo ch’era solo un’impressione perché invece Caponnetto era attentissimo alla truce realtà dei nostri giorni. Voleva combatterla e sapeva pure come. Ebbi anche la certezza – e non l’impressione – che fosse un uomo giusto. Una specie in via d’estinzione che non solo non è protetta, ma di cui, ai giorni nostri, la caccia è libera e sempre aperta. Poi ci furono le stragi che levarono di mezzo Falcone e Borsellino e c’è un’immagine di lui che non riesco più a togliermi dagli occhi, mentre sale in macchina e pronunzia qualche stentata parola d’estremo sconforto. Il suo volto, le sue parole, in quel momento mi fecero molta paura. Una paura quasi fisica che mi spinse immediatamente a spegnere il televisore. Se uno come Caponnetto arrivava a toccare quel fondo di scoramento assoluto, pensai, allora tutto era veramente perduto. Ma già dalla celebrazione del funerale di Borsellino capii che quella sua forza interiore si era non solo ricompattata, ma aveva preso un nuovo slancio. E infatti continuò a combattere sino alla fine, non più nelle aule giudiziarie, ma nelle aule scolastiche, o dovunque fosse possibile, per spiegare cosa era la mafia, quale tremendo danno arrecava al tessuto vitale non solo della Sicilia, ma dell’intero nostro Paese. Un giorno, tornando a casa, trovai nella segreteria telefonica un messaggio che testualmente diceva: “Sono un magistrato in pensione. Mi chiamo Caponnetto. Vorrei parlarle”. Seguiva un numero telefonico di Firenze. Quella sua inconfondibile voce! Confesso che non lo richiamai subito. Il rispetto che provavo per quel “magistrato in pensione” mi avrebbe fatto balbettare. Ero troppo emozionato, dovetti calmarmi. Poi composi il numero. Desiderava che io partecipassi a un certo incontro sul problema mafia. Accettai subito, grato. Mi disse in quell’occasione che per disturbi alla vista, i miei libri era costretto a farseli leggere. Ma, proprio quando stavo per partire per Firenze, un imprevisto mi costrinse a Roma. A quel mancato incontro ci ho pensato a lungo, dopo. E sono arrivato alla conclusione che forse quell’imprevisto, con un poco di buona volontà, si sarebbe potuto superare. Ma questa buona volontà mi mancò. Come mai? Se avevo, come avevo, tanto desiderio d’incontrarlo, perché mi ero arreso così facilmente davanti a un ostacolo superabile? E proprio mentre mi ponevo la domanda, ne ebbi la risposta: mi ritenevo assolutamente inadeguato. Temevo di deluderlo. Quel poco che ho scritto sulla mafia è una faccenda, in fondo, letteraria. Lui la mafia l’aveva invece vissuta e combattuta sul campo di battaglia, attraverso le indagini, i processi, le condanne. Le atroci perdite. Esponendosi e pagando di persona. Io invece me ne ero stato comodamente seduto al mio scrittoio. No, la parola spettava a lui e ai suoi collaboratori. Appena uscita la mia “Biografia del figlio cambiato”, che tratta dei rapporti di Luigi Pirandello col padre, gliela inviai. Mi arrivò, dopo qualche giorno, una sua lettera. Diceva, tra l’altro, che il mio libro l’aveva collocato in uno scaffale accanto a un libro di Pirandello, a lui molto caro perché gli era stato regalato dai suoi genitori. “Domine, non sum dignus” riuscii a dire ripiegando la lettera.»