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9 Agosto 2019In questa calda estate, di tutto quello che scrivo non rimarrà che un insieme di lettere a comporre un nome che non c’è. Del giovane magrebino incontrato su di una metropolitana francese. Nel breve tragitto di cinque fermate. Dalla stazione vicino all’Hotel fino a quella di Place Belcourt nel centro di Lione. Il giovane mi racconta che ama l’Italia e Roma dove ha vissuto ed ha lavorato come comparsa nei programmi RAI (chissà poi se mi ha detto la verità) in via Teulada. Mi racconta che in Francia non ci sta bene e che vorrebbe tornare a vivere nel nostro Paese. Che gli italiani sono diversi, sono brave persone. Lo hanno ospitato, gli hanno dato un lavoro e che in Francia non è così. Non riesce proprio ad adattarsi. Poi ricorda la madre che non vede da dodici anni e che sente una volta alla settimana per telefono. Quando me ne parla si commuove e trattiene a fatica le lacrime. È un’ansia dolorosa la sua. Ad un tratto resta muto ed io nascondo una sicurezza che non ho e sorrido sopra al rumore di un treno in corsa che sovrasta le voci. Si volta e dice qualcosa che non capisco. Parole perse, forse importanti. Per lui e per me. La prossima fermata è la mia, sono arrivato e devo scendere. I compagni di viaggio mi guardano con fare sorpreso e interlocutorio quando stringo la mano e saluto un ragazzo di colore del quale conosco uno sprazzo di vita ma non il nome. Storie, frammenti di esistenza che durano cinque fermate lungo le rotaie di una metropolitana francese. Che fanno riflettere e meditare e rimangono scolpite nel cuore. Quando ripenso alla figura di quel giovane, magrissimo e dal sorriso triste, mi ripeto come un mantra le parole di Julia Kristeva filosofa e scrittrice bulgara “Lo straniero sorge quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità”. Una cosa è rivendicare il diritto di essere diversi, un’altra cosa è arrogarsi il privilegio di sentirsi i migliori.
Alessandro Orlando