Anche oggi il caldo è terribile. Non riesco a comprendere come si possa stare sulla spiaggia a prendere il sole. Ho deciso. Mangerò un po’ di frutta in pineta sulla panchina vicino alla vasca e alla fontana. È ombrosa la pineta e lo stare vicino all’acqua che zampilla mi fa sentire bene.
Siedo e mi guardo attorno. Il sole accecante fuori da questo spazio protetto che non riesce ad attraversare fa compagnia al frinire delle cicale, l’unico suono che rompe un silenzio irreale, palpabile. Frusciano delicatamente a una brezza leggera i rami alti dei pini secolari. Dirompe lontano la luce del giorno, oltre la pineta e sento le voci dei bagnanti e il canto del mare, lo sciabordio melodioso delle onde che si infrangono sugli scogli e sulla battigia. Tutto attutito, ovattato, quieto. C’è pace e c’è ricordo in quello che sento e che vedo.
È giunta l’ora di mangiare qualcosa così mi alzo e mi avvio verso la fontana per lavare il mio pranzo.
La fontana è vicinissima ma c’è già qualcuno che occupa lo spazio antistante ad essa. Si sta bagnando i polsi, poi passa le mani bagnate sul collo e sui capelli lisciandoli all’indietro. Ha le mani abbronzate, magre, forti e nodose. Mi ricordano quello di uno zio, o meglio, di un fratello di mia nonna, il più giovane, che io affettuosamente chiamavo zio Francesco. La mia mente inizia a correre e le immagini si sovrappongono. Ricordo una piccola barca a remi e una canna da pesca e la cassetta dei galleggianti e degli ami, il mio cappellino di paglia, la mia inesperienza e quel sorriso. Lo stesso meraviglioso sorriso che adesso ha l’uomo in piedi di fronte a me.
«Venga, venga, se vuole lavare la frutta venga pure» Le sue parole, dall’accento che conosco bene, mi distolgono dai pensieri e dai ricordi.
Ringrazio, mi avvicino e passo il grappolo d’uva sotto il getto dell’acqua.
«Me ne offre un po’, me ne basta qualche chicco per gustarne il sapore. Amo l’uva»
La richiesta appare talmente strana e inaspettata che non so fare altro di meglio che annuire con fare esitante, poi anch’io sorrido, divido in due il grappolo che ho in mano e lo porgo all’uomo.
«Grazie, lei è gentilissimo e mi scusi se mi sono permesso, non ho potuto resistere»
Il suo modo gentile e il linguaggio forbito contrastano con l’aspetto trasandato del vestire e la barba non fatta.
Non è rocca di vanità ma è rocca di forma, rocca di sostanza. Forma che ha le sembianze d’un grappolo d’uva donato e sostanza di un pregiudizio scacciato dalla mente, di un sorriso amico, di un uomo di carnagione scura, dagli occhi celesti che ti guardano come se ti conoscessero da sempre.
Quell’uomo, nonostante il suo aspetto, profuma di buono, di cose non artefatte, di valori veri, di vecchie tradizioni ormai perse, di Sicilia. Ecco, sì, quell’uomo profuma di Sicilia, proprio come zio Francesco.
Lo zio era abituato a raccontare storie, tutte belle, tutte affascinanti e tutte che indistintamente racchiudevano una morale. Ne ricordo una in particolare che torna alla mente spesso quando parlo di Pirandello: la storia di Don Lolò e zì Dima Licasi nella novella “La Giara”. La comicità e il caso che si fondono nella vita. Lo zio aveva cambiato il nome di zì Dima in Giusfà. Non so perché. È sempre rimasto un mistero.
Ci mettiamo a parlare come se ci fossimo conosciuti da sempre e ci avviamo verso una delle panchine del vialetto. Gli spiego che sono fiorentino e lui mi dice che ha visitato Firenze tanti anni fa. Ricorda il Ponte Vecchio e Piazza della Signoria e la fontana del Nettuno. Mi chiede di spedirgli una cartolina quando ritornerò a casa.
Mi racconta di sé, come se fossi un parente incontrato dopo molti anni, della morte della moglie, della figlia che lavora come medico in ospedale a Livorno, del suo lavoro di saldatore, della sua casa in Sicilia a Porto Palo, di come è finito in questo posto di mare per una breve vacanza insieme alla figlia e al nipotino. Mi racconta della vecchiaia che avanza e della sua solitudine.
Io lo ascolto rapito, mi piace la sua voce, il suo accento, il suo gesticolare, la passione che mette nel conversare.
Ad un tratto, come preso da un’inspiegabile fretta, si alza salutandomi, mi ringrazia ancora del grappolo d’uva, mi stringe la mano e se ne va. Non mi ha dato il tempo di chiedergli un recapito dove spedire la mia cartolina di Firenze. Lo guardo allontanarsi col suo incedere sicuro fino a quando ingoiato dal vialetto della pineta scompare.
La cosa mi lascia perplesso e amareggiato. Mi rimprovero di non avergli chiesto subito l’indirizzo. Mi ha lasciato del buono dentro quell’uomo. Mi ha riportato indietro anni. Mi ha fatto bene quest’incontro. Chissà se nella mia vita lo incontrerò ancora? So già che non sarà così.
Mi rimetto a sedere sulla panchina vicino alla fontana e ripenso ad una antica leggenda ebraica che trae origini dal Talmud racconta che per ogni generazione, dall’inizio alla fine del mondo, ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre sulla terra Trentasei Giusti. Sono persone come noi che fanno mestieri normali e vivono una vita normale. Non si rivelano mai a nessuno e possono far conoscere la loro identità solo nel caso vi sia un grave pericolo per l’intera collettività. In ebraico dove ogni lettera è correlata ad un numero, i Trentasei Giusti vengono chiamati anche Lamed-Vav Tzaddikim dove alla parola Lamed viene attribuito il valore di 30, alla parola Vav quello di 6 e la parola Tzaddikim in ebraico ha il significato di Uomini Giusti. Spesso però il Giusto non conosce la propria identità ed è nella sua natura la capacità di anteporre e prediligere il bene in ogni sua azione rendendolo ammirevole e intimamente bello agli occhi di Dio. È per amor loro che Dio infatti non distrugge il mondo.
L’idea che ci possano essere trentasei persone che abbiano nelle loro mani le sorti del mondo, mi ha sempre affascinato.
Ripenso a quell’uomo dagli occhi color del cielo e la carnagione scura. E se fosse un Tzaddikim, uno dei trentasei Giusti del mondo?
Volgo gli occhi all’alto dei pini, lontano la voce dei bagnanti e il canto del mare. Continua il frinire ininterrotto delle cicale. C’è pace in questo tempo che passa, ordine e misura della vita.
Rimangono i ricordi.
Alessandro Orlando