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20 Settembre 2019Domenica 4 agosto a Gavinana, un piccolo e ridente paese a pochissimi chilometri da San Marcello Pistoiese, si svolgeranno una nutrita serie di iniziative legate alla figura del grande condottiero fiorentino.
Gavinana è tra l’altro la sede di un bellissimo museo dedicato al Ferrucci, con un percorso espositivo articolato in sale tematiche poste all’interno di un antico palazzo nei pressi della quale perì probabilmente il condottiero. La mostra parte proprio da una raccolta di armi trovate sul campo di battaglia a Gavinana, unite ad altre dello stesso periodo che con il tempo sono andate ad arricchire la collezione. All’interno delle sale si trovano anche dipinti che ritraggono i protagonisti militari e politici delle vicende di quel momento, oltre a plastici che illustrano i luoghi dei combattimenti. Sempre connessa alla battaglia di Gavinana è la sezione che racconta dell’Assedio di Firenze, e che nello specifico si intreccia con un altro tema tutto fiorentino come quello del Calcio in costume, per una sfida giocata proprio mentre all’esterno delle mura cittadine si trovavano le truppe assedianti.
E proprio per questo, sempre domenica 4 agosto, per le vie del paese sfileranno i rappresentanti del Corteo Storico Fiorentino e si terrà una esibizione di quello che è stato il vero antesignano del calcio moderno.
Per parlare di tutto questo, ovviamente per gioco, ho provato a intervistare lui, il protagonista indiscusso di quelle celebrazioni che per ovvii motivi non potrà essere presente.
Francesco Ferrucci, secondo una descrizione che ne fece Filippo Sacchetti e che io ho tratto da Wikipedia “era un uomo di alta statura, di faccia lunga, naso aquilino, occhi lacrimanti, colore vivo, lieto nell’aspetto, scarzo nelle membra…e dotato di carattere esuberante. Era propenso a far valere le proprie ragioni con la violenza”.
Ed è stata quest’ultima sua “qualità” che mi ha spinto ad andare molto cauto nel porgli le mie domande.
Signor Ferrucci, mi scusi ma è la prima volta che mi trovo davanti a un personaggio come lei, come vuole che la chiami?
«Il popolo e i miei valorosi compagni mi chiamano Ferruccio, ma a lei questo non è permesso benché provenga dalle mura della mia amata Fiorenza e come me abbia praticato la nobile arte del calcio fiorentino. Mi chiami allora semplicemente Capitano».
La ringrazio Capitano e prima di iniziare con le domande, se me lo consente, vorrei aggiungere a questo testo, a beneficio dei lettori, alcune pagine tratte da un romanzuccio scritto da due autori di Firenze.
«Prego, proceda pure».
Grazie Capitano; in quelle pagine si parla appunto di lei, del suo tentativo di salvare Firenze e di una partita di quel calcio fiorentino a cui lei accennava e che a Gavinana giocheranno in sua memoria. Il romanzo si intitola “San Giovanni ‘un vole inganni”, di Enrico Miniati e Alessandro Orlando.
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Firenze, 17 febbraio 1530
Era una giornata gelida, e il freddo penetrava spietato nelle ossa, crudele come la fame che faceva torcere dai crampi lo stomaco dei Fiorentini.
Nonostante quella rigida temperatura però, il grande camino che si trovava nello studiolo di Malatesta Baglioni era spento.
Come ormai avveniva anche per tutto il resto in città a causa del protrarsi dell’assedio delle truppe inviate dall’Imperatore Carlo V, la legna scarseggiava e il Governatore Generale di tutte le genti d’arme di Firenze non intendeva godere di alcun privilegio.
Cupo in viso così come lo era nell’animo, guardava pensieroso dalla grande finestra verso i vicini monti coperti di neve che facevano corona alla città.
Ormai era consapevole che, senza l’intervento diretto del Signore, o, in maniera molto più realistica, senza l’arrivo di improbabili rinforzi inviati da qualche città amica, ben difficilmente sarebbe riuscito a respingere la soldataglia nemica. La città sembrava essere ormai vicina a capitolare e non per la sua debolezza militare, ma perché mesi e mesi di assedio ne avevano ormai ridotto al lumicino le riserve alimentari.
L’uomo d’arme era un soldato di valore, esperto al punto giusto per saper riconoscere anche il momento della sconfitta, e pur tuttavia nutriva ancora una tenue speranza. “Non tutto è perduto” continuava a ripetersi nella mente, sperando ancora che qualcosa potesse modificare le sorti di una guerra che sembrava ormai segnata, e persino questa sua ansia faceva parte di quella speranza. Malatesta infatti era in attesa di notizie vitali per la salvezza della città e queste purtroppo tardavano ad arrivare.
E benché in città ci fosse molto poco da festeggiare, poco distante dal palazzo dove si trovava sentiva levarsi ora un brusio, ora grida festose inneggianti al Marzocco, quasi che la gente di Firenze non fosse per niente interessata a quanto accadeva fuori delle mura cittadine.
E in effetti, almeno per quel giorno, gli assediati avevano deciso di dimenticare la guerra, la fame e soprattutto i nemici.
Era periodo di carnevale e, come avveniva da sempre, in Piazza Santa Croce si stava giocando tra soldati e ufficiali liberi dal servizio di guardia una partita di calcio fiorentino tra una squadra di venticinque giocatori vestiti di verde a simboleggiare la speranza e una uguale come numero vestita però di bianco, simbolo della purezza e della libertà alla quale Firenze non intendeva rinunciare.
Un gruppo di musici, armati di trombe, tamburi e chiarine, per essere meglio visti, ma soprattutto sentiti far festa dal nemico, si era posizionato sul tetto della basilica e da quella posizione, facendo un gran chiasso, scherniva gli stupefatti assedianti, i quali, inutilmente, tentavano con qualche colpo di colubrina di costringerli a smettere.
Nella piazza intanto la partita procedeva invece accanita, tra le urla di incitamento degli spettatori che mischiavano alle grida verso i due gruppi di giocatori, lazzi e sberleffi lanciati all’indirizzo delle truppe spagnole.
Malatesta Baglioni, benché invitato a presenziare alla partita al fianco delle altre autorità cittadine, aveva rifiutato l’invito, preferendo restare nel suo studio a leggere i vari rapporti militari che continuavano a pervenirgli, ma sperando in cuor suo di ricevere le notizie a cui anelava.
A un tratto un leggero bussare lo distolse dai suoi pensieri e, augurandosi che quell’intrusione fosse perlomeno dovuta a ciò che stava attendendo con tanta ansia, si girò verso il Fante dell’Ordinanza che stava fermo sulla soglia.
«Mi porti notizie di Francesco?» gli chiese Malatesta.
«È giunta notizia che il nobile Capitano Ferrucci sia a Pisa. E si dice che lì abbia radunato un piccolo esercito di tremila fanti e quattrocento cavalieri e che stia per tornare a Firenze in nostro soccorso».
“Un ben misero esercito il suo” pensò il Baglioni dopo aver ringraziato e congedato il messaggero. “Speriamo almeno che il nemico non lo blocchi lungo il viaggio di ritorno. Firenze ha bisogno di tutti, ma in particolare del Ferruccio. Per il popolo e per i soldati, la sua sola presenza vale quanto i suoi tremila fanti e credo proprio che questo suo disperato tentativo sia l’ultima nostra speranza di riuscire a impedire la capitolazione della Repubblica e il ritorno al potere dell’odiata casata de’ Medici”.
La storia ci racconta che le cose andarono in maniera diversa. Francesco Ferrucci fu bloccato dall’esercito imperiale a pochi chilometri di distanza da Pistoia e, dopo una combattutissima battaglia, ucciso da Fabrizio Maramaldo nel modo che tutti sappiamo.
Firenze, stremata dalla fame e dalle malattie, il 12 agosto 1530 dovette capitolare e accettare il ritorno al potere di un esponente della Famiglia Medici, che, di fatto, pose così fine al periodo repubblicano.
Quello che invece la storia non riporta è il risultato di quella memorabile partita che ancora oggi viene ogni anno rievocata in Piazza Santa Croce in occasione dei festeggiamenti di San Giovanni, patrono cittadino. Probabilmente i cronisti fiorentini dell’epoca preferirono ometterlo dai loro racconti, accomunando invece calcianti e spettatori in un esaltante ricordo di coraggio e di beffardo disprezzo verso il nemico.
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«Perbacco!». Ha esclamato il mio intervistato dopo che io gli avevo letto il testo sopra riportato. «Messere, lei e il suo compare avete descritto benissimo il Baglioni e quel che avveniva nella mia povera città assediata. E poi mi ha anche dato un’informazione che io non avevo. Della partita non ne sapevo niente. E veramente lei non ne conosce il risultato?».
No Capitano; mi creda sarei ben lieto di dirglielo, ma nessuno lo sa.
«Peccato, ma saprò ben trovare qualcuno che vorrà dirmelo».
Senta Capitano, tutti sanno che lei – sempre tratto da Wikipedia – era nato a Firenze il 14 agosto del 1489 da una famiglia di mercanti in una casa ancor oggi esistente in via Santo Spirito. Suo padre lo avrebbe voluto mercante ma il suo carattere impulsivo e deciso gli faceva preferire la caccia alla mercatura. Quando i Medici vennero cacciati da Firenze, nel 1527, all’età di trentotto anni, entrò a far parte delle famose “Bande Nere” e da lì ebbe inizio la sua leggenda. Leggenda che comprende anche una sua frase che è rimasta impressa nei secoli. Vuole parlarmene?
«Si riferisce a quanto ebbi a dire al “gattuccio”?».
Gattuccio Capitano? Non la capisco io so che è stato un altro a…
«Gattuccio sta per Fabrizio Maramaldo. Ed è proprio per via di quel suo nome così ridicolo, ben presto trasformato dai miei soldati in “Miagolio” durante l’assedio di Volterra che lui ha giurato di farmela pagare. Cosa vuole, a Volterra, mentre lui e i suoi tentavano di entrare in città, noi dall’alto delle mura spenzolavamo dei gatti legati per la coda a lunghe corde, facendoli miagolare disperatamente, proprio come aveva fatto il suo messo mentre io lo facevo impiccare. “Trombetto” si chiamava e come quei poveri gatti lo feci appendere per i piedi fuori delle mura per tutta la durata dell’assedio».
Beh, forse proprio tutti i torti allora non li aveva, stavo per dire, ma la prudenza ha avuto poi il sopravvento.
Però mi conferma che lei Capitano, a Maramaldo quelle parole le ha dette veramente.
«Certamente, e lo rifarei. Lei concorderà con me che un uomo si uccide in un altro modo; e comunque non a tradimento o quando questi è disarmato. Un conto è farsi beffe di un avversario come facevo io, un conto è estrarre un pugnale e colpire chi ti sta davanti, prigioniero e già ferito. Però c’è una cosa che molti non sanno».
E quale Capitano Ferrucci?
«Che io prima che mi colpisse non ero stato molto… gentile con lui. Non ricordo bene ma credo di avergli riportato alla mente Volterra e le sue sconfitte e di aver pronunciato più volte il nome di sua madre unendolo forse a qualche epiteto colorito. Chissà, forse si è offeso ed è per quello che mi ha colpito. Ma ormai è passato tanto tempo».
Capisco. Ma anche oggi non è molto diverso Capitano. Ma mi dica, come andarono le cose a Gavinana?
«Eravamo in pochi, ma se fossimo giunti a Firenze avremmo forse cambiato le sorti della guerra. Purtroppo fummo traditi e dopo una cruenta battaglia sconfitti. E visto che me ne offre l’opportunità, mi lasci ringraziare il popolo della cittadina di Gavinana che oltre ad accoglierci nelle sue mura combatté strenuamente al nostro fianco. Furono dei veri eroi, uomini e donne. E benché quella battaglia per noi sia finita male, gli imperiali non ebbero di che rallegrarsi, dato che moltissimi di loro mi hanno seguito nell’aldilà. Uno per tutti quel tronfio di un Principe d’Orange. Ben due colpi di archibugio si è preso quel giorno».
E quindi è per questo atto di coraggio che gli attuali abitanti di Gavinana ricordano ogni anno lei e la battaglia?
«Esatto. Le ho già detto che furono degli eroi e anch’io ogni anno, ovviamente senza farmi vedere, torno ad aggirarmi tra queste mura che furono la mia ultima dimora terrena. E ogni volta mi compiaccio con chi organizza l’evento. Quindi invito tutti i suoi lettori a voler venire a trovarci. Gavinana è bella, l’aria è più fresca che in città, le iniziative sono tante e poi quest’anno si gioca al calcio fiorentino e io potrei persino prendere parte alla partita infilandomi per qualche minuto nel corpo di uno dei calcianti».
Allora posso sperare di rivederla domenica 4 agosto?
«Chissà. Mai dire mai. Io sarò là, starà a voi umani riuscire a vedermi. E nel caso ci incontrassimo vi avviso sin da ora che dovrete per forza gridare con me: Viva Fiorenza!».
Non mancheremo di farlo Capitano Ferrucci.
Per scherzo, per Arteventinews
Enrico Miniati