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Immagine gentilmente concessa dall’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia)
Il Vesuvio, il più pericoloso tra i vulcani attivi italiani, è noto nel mondo soprattutto per l’eruzione del 79 d.C., che interruppe un periodo di quiescenza durato sette secoli e distrusse in due giorni le città di Pompei, Ercolano.
“Crederà la generazione ventura degli uomini, quando rinasceranno le
messi e rifioriranno questi deserti, che sotto i loro piedi sono città e
popolazioni e che le campagne degli avi si inabissarono?”
(Publio Papinio Stazio, 90 d.C.)
Il Somma-Vesuvio è uno strato vulcano che raggiunge un’altezza massima di quasi 1.300 m s.l.m.(leggi: sul livello del mare) e, come dice il nome, è costituito dal più vecchio vulcano del Monte Somma a cui è susseguito uno sprofondamento del corpo vulcanico (caldera), e dal più recente vulcano del Vesuvio, cresciuto all’interno di quella “caldera”.
La morfologia del Monte Somma è caratterizzata da un versante meridionale molto ripido, e da uno settentrionale meno acclive e solcato da numerose e profonde incisioni vallive. Il Vesuvio ha invece una tipica forma a cono con un cratere sommitale di circa 500 m di diametro e profondo circa 300 m. Il cratere del Vesuvio è situato a circa 15 km dal centro della città di Napoli, verso E-SE.
Limitandoci a periodi geologici recenti prima del 79 d.C. l’attività del Vesuvio è stata caratterizzata da eruzioni esplosive (in termine tecnico sono dette pliniane, da Plinio il Giovane che ne descrisse proprio le caratteristiche durante la catastrofe del 79 d.C.), separate da periodi di riposo della durata di alcune migliaia di anni e da una serie di eruzioni simili alla precedenti ma di minor energia (dette quindi subpliniane). Queste eruzioni esplosive di elevata energia sono caratterizzate da emissione di grandi volumi di magma frammentato, seguita dalla caduta di particelle vulcaniche e dallo scorrimento di flussi di materiale roccioso fuso misto a gas di origine vulcanica e atmosferica che scende lungo i fianchi del vulcano a temperature variabili tra i 500 e i 1000 gradi e velocità di 50/70 km/orari (termine tecnico: flussi piroclastici o nubi ardenti). Per circa mille anni dopo il 79 d.C. il Vesuvio continuò, con frequenti eruzioni, a riversare i suoi prodotti sulle aree circostanti. Seguì poi un periodo di quiescenza che durò circa cinque secoli. Le popolazioni che si avvicendarono ai piedi del vulcano cominciarono a dimenticare cosa era quella “montagna”, che nel frattempo si ricoprì di vegetazione e assunse nuovamente quell’aspetto idilliaco e fertile che aveva avuto prima dell’eruzione dell’anno 79 d.C.. Il nuovo terribile risveglio, in una tragica notte del dicembre del 1631, ripropose il solito copione di distruzione e morte. A partire da questa eruzione, ha avuto inizio un periodo di attività durante il quale si sono alternate fasi caratterizzate da prevalente attività a brevi periodi di riposo e violente eruzioni miste (effusive ed esplosive). Questo periodo si concluse con l’ultima eruzione, che iniziò il 18 marzo 1944 e terminò nei primi giorni di aprile dello stesso.
Quindi il comportamento del Vesuvio nel corso della sua storia è dato dall’alternanza tra periodi di attività eruttiva, durante i quali il condotto del vulcano è aperto, e periodi di quiescenza, in cui il condotto è ostruito. I periodi a condotto ostruito giustificano l’assenza di attività eruttiva e producono l’accumulo, in una camera magmatica, di roccia fusa proveniente dal profondo. Essi si concludono generalmente con un’eruzione esplosiva che è tanto più violenta quanto più lungo è stato il periodo di quiescenza che l’ha preceduta. A questi eventi esplosivi seguono periodi di attività eruttiva a condotto aperto, con il magma che riempie il condotto e raggiunge generalmente il fondo del cratere. Alla luce del comportamento passato si ritiene che l’eruzione del 1944 abbia segnato la fine di un periodo di attività eruttiva a condotto aperto (che durava fin dalla grande eruzione del 1631) e l’inizio di un periodo di quiescenza a condotto ostruito. Dal 1944 ad oggi il vulcano ha dato solamente modesti segni di vita.
Il comportamento passato e lo stato attuale del Vesuvio suggeriscono che il vulcano riprenderà la sua attività eruttiva, e che, se ciò avverrà, potrà essere di tipo esplosivo. Pertanto il Vesuvio è un vulcano altamente pericoloso.
Per far fronte a quanto sopra esiste un piano strategico di emergenza dell’area vesuviana dei Campi Flegrei e dell’isola di Ischia (perché anche queste ultime sono aree vulcaniche a forte rischio, seppur meno famose) ed è un piano elaborato dal 1995 che nel corso del tempo, fino ai nostri giorni, ha subito modifiche e aggiornamenti; l’impianto è abbastanza condivisibile ma alcuni punti sono ancora ad oggi oggetto di aspre critiche.
Partiamo dal presupposto che in un’Italia dove per ogni catastrofe viene nominato un Commissario Straordinario – con la relativa pletora di tecnici, impiegati e portaborse – per il “Piano Vesuvio e Campi Flegrei” – incredibile a dirsi – non è mai stato identificata o creata una struttura tecnico-amministrativa delegata a realizzare un piano di emergenza vulcanica con tempi e modalità certi e, soprattutto, responsabilità assegnate.
Il piano di emergenza “Vesuvio” individua una serie di azioni da compiere in relazione al livello di allerta in corso (base-verde, attenzione-giallo, preallarme-arancione, allarme-rosso, eruzione; figura 1) a alle aree specifiche di intervento individuate in base a pericoli minori allontanandosi dalla bocca del cratere (“zona rossa 1”-“zona rossa 2”; figura 2) Le aree da sottoporre ad evacuazione cautelativa sono, infatti, sia quelle soggette ad alta probabilità di invasione di flussi piroclastici (zona rossa 1) sia quelle soggette ad alta probabilità di crolli delle coperture degli edifici per importanti accumuli di materiale piroclastico (zona rossa 2). Il perimetro delle aree di intervento e i livelli di allerta sono stati redatti seguendo gli studi vulcanologici protratti nel tempo e come riferimento è stato preso il “peggiore dei possibili scenari” nell’ultimo millennio, quello relativo all’eruzione del 1631 dove furono devastati 50 km quadrati di territorio e perirono circa 4.000 persone.
Figura 1: livelli di allerta del piano di emergenza (Dipartimento protezione civile).
Figura 2: le zone rosse del piano di emergenza (Dipartimento protezione civile).
Il piano prevede l’evacuazione della intera popolazione delle aree in caso di “allarme vulcanico”, e qui vi sono le prime perplessità poiché l’evacuazione totale avverrebbe al “livello rosso” mentre nei livelli precedenti (scanditi dal progressivo potenziamento del monitoraggio vulcanico e dalle riunioni dei comitati di crisi) per la popolazione non è prevista nessuna disposizione. È evidente che con questa situazione la popolazione sarà portata ad evacuare già al primo sentore di allarme vulcanico. Il piano prevede una serie di gemellaggi con le Regioni e le Province Autonome del paese che ospiteranno le persone evacuate dall’area sottoposta a eruzione, in particolare sono state mappate 18 regioni italiane identificate come aree di destinazione degli evacuati. Una scelta della quale non è chiara la logica. Se l’esigenza è quella di allontanare i profughi durante la fase più violenta dell’eruzione, che dura, al più, pochi giorni, perché localizzarli in aree così lontane e non localizzarli temporaneamente, poniamo, in aree immediatamente a ridosso dell’area a rischio? Se si ipotizza, invece, che l’eruzione distruggerà il territorio, perché disperdere le popolazioni vesuviane in tutta Italia e non pensare già da oggi ad un loro reinsediamento in aree più vicine, dove sarebbe possibile ricostruire i rapporti sociali, lavorativi, familiari distrutti dall’eruzione?
Non solo: la situazione di allarme viene generata da una serie di segnali premonitori (“precursori”) che vengono valutati scientificamente…. (terremoti, bradisismo, aumento delle fumarole, presenza e/o aumento nei gas emessi e nelle acque sorgenti di particolari elementi chimici);
ma chi garantisce che le anomalie registrate dai sensori e/o i fenomeni avvertiti dalla popolazione evolvano verso un’eruzione o rientrino senza fare danni? Quali indicazioni dare alla popolazione? Quale impatto ha ordinare “a scopo precauzionale”, l’evacuazione obbligatoria di una popolazione di 700.000,00 abitanti nella sola area vesuviana? E non ultimo, per quanto tempo? Anche in episodi precedenti l’attività vulcanica si è protratta per mesi e la popolazione ha convissuto con i fenomeni caratteristici di una preeruzione fino al ritorno alla quiescenza del sistema. Come si motivano i danni economici e sociali che questo esodo coercitivo comporta? Ridurre tutta la pianificazione dell’emergenza ad una sola arbitraria ipotesi eruttiva tagliando fuori scenari più circoscritti e, certamente, più probabili (come quello caratterizzato da sciami di terremoti e da bradisismo) è una metodologia che alcuni considerano sbagliata. Anche perché un piano di emergenza così redatto finisce per determinare direttive davvero singolari e tali scelte possono generare sfiducia nelle strutture amministrative preposte, in primis la protezione civile. In una situazione di notevole incertezza (come quella che caratterizza l’interpretazione della possibile evoluzione di fenomeni vulcanici profondi, intercettati per il momento dalle sole strumentazioni di sorveglianza, quando ancora si spera che la minacciata eruzione rientri senza manifestare all’esterno alcun segnale), quale burocrate o politico avrà il coraggio di diramare l’allarme e ordinare una rovinosa evacuazione generale?
In assenza di alcuna iniziativa vi è invece il rischio che il manifestarsi di fenomeni improvvisi, come boati o fumarole, oltre a scatenare il panico, faccia crollare come un castello di carte la credibilità delle strutture preposte alla gestione dell’emergenza. Allora assisteremmo a una dinamica diametralmente opposta: di fronte al perdurare di una attività intensa di segni premonitori e ripetuti falsi allarmi si determina la fase del “Al lupo…, al lupo” (Wolf Warning Syndrome) per cui ogni nuova informazione viene pesata superficialmente e l’atteggiamento di molte popolazioni abitanti le aree è quello di restare in zona oppure peggio ancora, dopo un iniziale fuga, di ritornare alle proprie case.
Riassumendo: manca una messa a punto definitiva del piano di emergenza ma è lacunosa anche la diffusione di una cultura della prevenzione e dell’emergenza soprattutto tra la gente comune. Un piano ha un impatto forte se viene fortemente pubblicizzato, se le popolazioni che vivono nelle aree a rischio lo conoscono tramite programmi di educazione scientifica e infine lo hanno fatto proprio, soprattutto se lo hanno sperimentato attraverso esercizi e simulazioni. Informazioni necessarie che devono essere integrate con i comportamenti delle popolazioni vesuviane di tempo addietro che avevano sviluppato con le eruzioni una certa “confidenza”, una “memoria storica”, e ciò aveva permesso ad esse di convivere per secoli con un vulcano in continua attività. Invece oggi le attuali popolazioni, grazie anche alla enfatizzazione operata dai mass media (che, sostanzialmente per motivi di audience, assimilano il fenomeno eruttivo all’eruzione del 79 d.C.) leggono una futura eruzione come un immediatamente catastrofico evento, foriero di sicura distruzione e morte. Un evento dal quale salvarsi con la fuga, generando allarmismo ingiustificato e ipersensibilità patologica nella popolazione.
E per continuare: le scuole dovrebbero essere il veicolo di programmi per la riduzione del rischio, vulcanico o sismico. Le municipalità dovrebbero attrezzarsi, ed i ricercatori infine divulgare le proprie conoscenze con linguaggio semplice ed accessibile, infine lo stato deve garantire che il piano di emergenza di cui sopra sia realistico e fattibile. L’ attività dei vulcani ha, in qualche modo, la possibilità di essere compresa nel tempo e con essa anche le potenziali eruzioni, a differenza degli eventi sismici. Questo non significa che abbiamo certezze ma ci sono, per così dire, possibilità di scampo. Le popolazioni che vivono in prossimità di un vulcano come il Vesuvio questo devono sapere e vivere e organizzarsi di conseguenza.
Vagaggini Renato