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15 Luglio 2019Aldo Bardelli, lo ricordo ai più distratti, è stato uno dei nostri più grandi piloti di competizioni automobilistiche su strada nel periodo dal 1960 ai primi anni ’70. E in quel lungo periodo ha partecipato a oltre 400 gare, vincendone esattamente la metà. E se questo non è un record, è sicuramente un biglietto da visita di tutto rispetto.
Oggi ha un’età che non gli permette più di gareggiare, ma guida ancora l’auto, ed è con gli occhi che brillano di orgoglio e di gioia fanciullesca che, al termine della nostra intervista, mi mostra una delle auto con le quali ha gareggiato. Una splendida Jaguar E Type color champagne, realizzata in soli tre esemplari al mondo in quella tipologia (l’auto che fu realizzata in un unico esemplare appositamente per lui fu invece la TZ2 della Scuderia Auto Delta di Udine),
«È simile a quella di Diabolik», mi dice ridendo con gli occhi. «Ma la mia è speciale».
E io, ammirando quello straordinario veicolo, mi immagino l’effetto che deve aver fatto quest’uomo sfrecciando a cavallo degli anni ‘60 sulle strade di mezza Italia.
Aldo Bardelli è pistoiese e vive da sempre nella nostra città in una bellissima casa immersa nel verde di una delle sue più belle periferie collinari.
Ed è lì che, grazie ai contatti presi in precedenza con la figlia Francesca, lo incontro assieme alla moglie Mara.
Qualche frase di rito, un caffè e poi un lungo giro attraverso quello che sembra un vero e proprio museo dell’automobile. Coppe, fotografie, manifesti, miriadi di trofei appesi alle pareti di un grandissimo stanzone dove il nostro pilota conserva le sue memorie. Volumi su volumi pieni di notizie, ricevute di alberghi, classifiche e persino… contravvenzioni. Sì perché Bardelli, con cura quasi maniacale, ha conservato negli anni tutto quanto lo ha riguardato; e quindi, in bella mostra in quel suo memoriale, mi indica le ricevute delle multe che immancabilmente prendeva quando con l’auto provava le strade che avrebbe poi percorso in gara. «Mi facevano sempre pagare il minimo», mi racconta. «Ma quello era il loro dovere e io non ho mai protestato, anche perché ammetto che andavo veramente troppo forte».
Com’è iniziata la sua storia signor Aldo?
La parte più importante è iniziata quando ho avuto il piacere di incontrare l’ingegner Carlo Chiti, pistoiese come me. Lui si occupava già del settore corse dell’Alfa Romeo e, dato che io mi ero già messo in mostra in alcune gare, mi volle conoscere, offrendomi poi di gareggiare su auto di quella marca.
Ecco, si può dire che la mi storia di pilota è iniziata in quel modo. E le Alfa sono state sempre le mie auto.
Auto che lei ha guidato per un’infinità di circuiti, con una impressionante serie di vittorie.
Sì, ne ho vinte tante, ma ammetto di non averle mai contate. Però per me lo ha fatto un appassionato statunitense che un giorno mi ha regalato il curriculum dei miei successi. È talmente appassionato che possiede persino una tZ2 che anch’io ho guidato.
E quando dimostro la mia ammirazione per quanto mi sta dicendo rispetto al rapporto tra gare fatte e gare vinte, lui, forse perché non vuole assolutamente apparire diverso dall’uomo schivo che è, ci tiene a sminuire quei successi dicendo che dopotutto questo è dovuto al fatto che ha corso per quasi trent’anni. Come se in quei numeri strepitosi ci fosse un rapporto di minor effetto dovuto al tempo.
Cos’è che spinge un giovane a voler correre in auto?
La passione per lo sport. E, nel mio caso, l’aver avuto la possibilità di acquistare nel 1960 la mia prima Jaguar con la quale ho iniziato a correre. Poi, come già, detto l’incontro con l’ingegner Chiti e il passaggio all’Autodelta Alfa Romeo.
E si ricorda quale fu la sua prima Alfa?
Certamente, come potrei dimenticarlo? Era una splendida Giulia Quadrifoglio. Poi passai alla TZ1 e TZ2 prototipi e successivamente alla 33 prototipo. Tutte macchine meravigliose.
Ma le metteva a disposizione la scuderia?
Macché, quelle le pagavo io. I soldi erano miei. E se si sta chiedendo come potessi farlo, le rispondo che la mia fonte di reddito erano, oltre al mio lavoro, soprattutto i tanti premi che vincevo.
Quindi non erano ancora i tempi del professionismo spinto all’eccesso come è oggi?
No, erano tempi forse più semplici e schietti. Io, e come me moltissimi altri piloti, avevamo degli accordi con le scuderie siglati semplicemente con una stretta di mano. E quella valeva più di ogni contratto. Onestà, sincerità, amicizia e sportività era quello che si respirava in quel nostro mondo.
E quindi la rivalità tra voi piloti in cosa consisteva?
Ovviamente nel voler arrivare primi al traguardo. Ma una volta terminata la gara prevaleva sempre il rispetto e l’amicizia. Naturalmente faceva piacere vincere, ma anche veder vincere gli altri non era vissuto come una sconfitta. A volte anzi…
Anzi? Adesso sono curioso di sentire il resto.
Eravamo principalmente un gruppo di amici e per questo a volte capitava che in qualche gara non si spingesse il pedale dell’accelleratore fino in fondo, lasciando che a farlo fosse magari l’idolo di casa.
E poi?
E poi poteva succedere che il favore venisse ricambiato, magari in una forma diversa come ad esempio capitò a me quando alla vigilia di una gara in Sicilia mi rubarono le ruote anteriori della macchina impedendomi di partire. Il giorno dopo, grazie all’intervento di un pilota di “casa”, le gomme tornarono al loro posto assieme a un biglietto di scuse e a quello della nave che mi avrebbe riportato a casa.
Dal suo racconto si percepisce che quello era un mondo che oggi ci può sembrare quasi assurdo.
Non nego che c’era rivalità e che vincere era il nostro primo scopo, ma come ho detto esisteva anche tanta amicizia.
Facciamo un salto all’indietro nel tempo. Come ha fatto a trovare i soldi per la prima auto?
Io ho sempre lavorato; ho iniziato a 10 anni facendo gli scaldini nella ditta dei nonni che aveva sede a Cantagrillo. Ma oggi sicuramente i giovani non sanno neanche cosa erano gli scaldini. Successivamente ci trasferimmo a Pistoia e io dopo aver preso la patente giravo l’Italia vendendo la nostra merce. In particolare andavo nella zona di Milano dove avevamo aperto un’altra fabbrica e fu proprio lì che incontrai gente appassionata di auto e di corse che mi spinse a voler provare. E dato che uno stipendio lo avevo garantito feci la pazzia di buttarlo in gran parte in quella macchina. E ricordo ancora che i miei genitori non la presero benissimo. Specialmente quando dovetti confessare che avevo firmato un gran numero di cambiali e quando si accorsero che, a causa di questa mia passione, dedicavo minor tempo all’azienda di famiglia.
Lei però prima dell’automobilismo ha fatto anche diversi altri sport.
Sì, ho corso in bicicletta, ho praticato l’hockey, il pattinaggio a rotelle e il calcio. Ma poi alla fine l’auto ha avuto il sopravvento. Ma posso dire che per me fare sport era soprattutto vita.
E ricorda qual è stata una delle sue prime scuderie?
Ma certo che lo ricordo, era Pistoia Corse. E anche con quella mi sono tolto delle bellissime soddisfazioni. Sportive ed economiche perché oltre ai premi vinti in gara, c’era da sommare l’ingaggio che mi veniva offerto proprio per gareggiare sotto quei colori.
Essere un personaggio famoso come lei è stato, cosa rappresenta in una città non grandissima come è la nostra Pistoia?
Che sono stato famoso lo dice lei, io non lo credo. Forse qualcuno mi conosceva, ma da qui a essere famoso ne corre. Comunque io non ho mai amato né mettermi in evidenza né parlare di me e nemmeno fare sfoggio della mia capacità di guidare un’auto. E nonostante che io, in virtù dei miei risultati possedessi la tessera di pilota internazionale che mi dava la possibilità di usufruire gratuitamente di qualsiasi mezzo di trasporto pubblico, le assicuro che mai in vita mia l’ho utilizzata una volta. Non mi piaceva mettermi in mostra e quindi se c’era da pagare, io pagavo. Allo Stato Italiano non ho mai chiesto niente. Non lo ritenevo giusto.
E tutto questo di cui mi parla avveniva mentre continuava a dare una mano all’azienda di famiglia.
Certo; quando potevo guidavo ancora i camion carichi di merce. Non mi sono mai sentito un “arrivato”. E ho continuato a farlo per anni, fino a quando, una volta divisa l’azienda con uno zio, abbiamo iniziato a occuparci di compra vendita di fabbricati.
E questa, una volta terminata la sua carriera, è diventata la sua attività?
Proprio così. Ho continuato a occuparmi di quel settore.
Ho potuto dare un’occhiata al libro uscito recentemente che parla di lei che ha come titolo: “Il corridore Aldo Bardelli e le sue Alfa Romeo”. Cosa si prova in una simile situazione.
È il primo libro interamente dedicato a me. E questo ovviamente mi rende orgoglioso. E anche se spesso ero sulle pagine sportive dei giornali un intero libro è veramente un grande onore.
Lei immagino che continui a seguire il mondo delle corse automobilistiche. Segue anche la Formula 1? E cosa ne pensa?
Sì, quando posso guardo le gare in televisione. Però penso che un vero pilota debba sapere usare il cambio e non quei pulsanti che hanno sopra il volante. Un pilota deve saper “sentire” cosa gli dice il motore della sua auto e da questo capire come comportarsi. E poi tutti quei consigli, suggerimenti e informazioni sugli avversari che gli arrivano dai box credo che in qualche modo alterino le difficoltà di una gara.
E qui, lasciandomi a bocca aperta, mi racconta di quando assieme all’ingegner Chiti, dovendo limare pochi secondi a giro, decisero di evitare l’uso della frizione per innestare le marce. E alla mia domanda su come questo fosse possibile, ridacchiando mi invita a fare con lui un giro sulla sua Jaguar. «Glielo faccio vedere se vuole. Il motore ha una sua voce e io riesco a sentire quando è il momento di cambiare marcia».
Lei ha corso anche sui circuiti di Formula 1?
Sì. Al termine della carriera, assieme ad altri piloti facevamo prima dell’inizio dei Gran Premi delle esibizioni con i prototipi. E io spesso c’ero. E c’ero anche quando successe il dramma del povero Niki Lauda con l’auto incendiata e lui che ne uscì sfigurato per sempre.
Il mondo dello sport. Ovviamente tutti sanno quanto praticarlo sia positivo. Mi dica lei un qualcosa di nuovo.
Io ho ottantasei anni e continuo tuttora a darmi da fare dalla mattina alla sera. Quindi se prendo il mio caso, diciamo che lo sport aiuta a invecchiare bene.
Cosa ricorda di quel mondo di cui ha parlato sinora?
Che era una vita bellissima.
Ed è vero che i piloti erano un poco come i toreri? Ricchi di fascino, di sprezzo del pericolo, pieni di racconti e di simpatia?
Non lo so. Eravamo giovani ed eravamo amici. Questo lo ricordo. Poi non eravamo tantissimi e ovviamente ovunque andavamo facevamo notizia.
Aldo Bardelli e la famiglia. Nella sua carriera ha contato molto avere moglie e figli?
Certamente. Mia moglie è pistoiese e ha iniziato prestissimo a seguire le corse assieme a me. E mi ha sempre assecondato senza creare problemi. E successivamente si sono aggiunte le nostre due bambine e qui i problemi ho cominciato ad averli io. Le confesso che spesso mentre correvo mi balzavano davanti agli occhi i loro visini. E questo in qualche modo mi limitava. E dopo di loro adesso ci sono i nipoti che sono la gioia dei nonni. Pensi che a loro ho già promesso in regalo la mia Jaguar.
Senta Aldo, lei mi racconta di un mondo apparentemente romantico e invidiabile. Però è anche vero che a quei tempi le misure di sicurezza erano minime. Come si viveva una gara appesi soltanto alla propria bravura?
Erano altri tempi come le ho detto e quindi noi eravamo convinti che quello fosse il modo più sicuro di correre. Le nostre auto non avevano le accortezze che esistono adesso e spessissimo quando finivamo coinvolti in qualche incidente correvamo il rischio di essere sbalzati fuori dall’auto. E qualcuno purtroppo ci ha anche rimesso la vita. Ma era quello il nostro modo di gareggiare. Ovviamente oggigiorno fortunatamente è tutto più sicuro. Anch’io in diverse occasioni posso dire di essermela vista brutta, ma come vede sono ancora qua.
E sua moglie come viveva questa sua passione? Ovviamente era consapevole che lei poteva correre dei rischi.
Non è mai stata particolarmente apprensiva; o meglio, non l’ha mai apertamente dimostrato. Sapeva che era quello che volevo fare e quindi mi assecondava. Poi cosa provasse realmente solo lei potrebbe dirglielo.
Quand’è che un pilota decide di smettere?
L’ho fatto in seguito a un bruttissimo incidente al quale assistei. Quel fattaccio, e l’idea della famiglia, fu ciò che principalmente mi spinse a rivedere il mio modo di vivere. Diciamo che a un certo punto mi accorsi che la “voglia di casa” era diventata superiore alla passione per le gare.
Ma è facile smettere? Come si torna alla “normalità”?
No, non è facile, assolutamente no. Smisi di gareggiare però rimasi nell’ambiente. E ricordo che pur non gareggiando più andavo ancora con l’auto da corsa a provare i vari circuiti. Non era facile smettere di colpo e l’ho fatto lentamente, continuando a frequentare quel mondo sia pur in una forma diversa.
Lei ha corso sempre con l’Alfa Romeo. Però nell’immaginario collettivo degli italiani l’auto da corsa per antonomasia è la Ferrari. È mai andato vicino a pilotarne una?
Ho avuto delle proposte dalla Ferrari, ma io ero fedele alle Alfa e sono rimasto sempre con quelle. E poi le Alfa erano e sono ancora delle macchine meravigliose. Ma c’è anche un’altra cosa che mi ha spinto a quella scelta: la parola data all’ingegner Chiti. E per me la parola vale molto più di mille contratti.
Quindi non soltanto decisioni basate sull’aspetto economico?
Era l’aspetto umano quello a cui più tenevo. I soldi ovviamente erano importanti, ma io, oltre a correre per pura passione, lo facevo anche perché quell’uomo mi piaceva. E il rapporto con Chiti è sempre stato franco, onesto e leale. Ecco il motivo per il quale sono rimasto all’Autodelta.
Tornando al presente, mi parla di questa sua passione per la storia pistoiese che ho visto racchiusa in una notevole collezione di libri, scritti, cartoline, eccetera?
Le cose vecchie mi sono sempre garbate – risponde con sicurezza e in modo spontaneo – e quindi tutto quanto parla e racconta della mia città, di come era, come si è trasformata nel tempo, i suoi personaggi e i suoi monumenti mi attira. Io amo profondamente Pistoia e quindi raccogliendo tutto il materiale che trovo, continuo a coltivare questo amore.
A parte qualche anno in meno, cosa rimpiange di quella vita piena di passione, auto e rischi?
Gli amici. Quelli erano una delle cose che più mi piacevano.
La mia chiacchierata con Aldo Bardelli, pilota di auto finisce qui. Non senza però aver potuto ammirare la sua Jaguar. Me la mostra liberandola con cura da un telo bianco che la ricopre. Quasi la accarezza e ne parla come di una cosa viva. Lo so che può sembrare assurdo, ma questo mi richiama alla mente l’immagine della mamma dei Gracchi, Cornelia Scipione, quando definiva “gioielli” i suoi figli. Ecco, per Aldo Bardelli i figli hanno voluto significare l’inizio di una vita diversa da quella del pilota, ma lei, la sua Jaguar – quella di Diabolik – probabilmente resterà per sempre il suo gioiello preferito.
Per arteventinews
Enrico Miniati