Mi siedo davanti al computer del mio studio. Il foglio in word è ancora bianco. Dovrò riempirlo parlando di una conferenza alla quale ho assistito e che mi mette a disagio: “Con-vivere con la malattia”. Il relatore Vittorio Lingiardi, appena si presenta sul palco del teatro Bolognini di Pistoia, si scusa con il pubblico presente per aver preso il posto dell’amico Prof. Eugenio Borgna, il collega che per motivi di salute non è potuto venire sabato 25 maggio ai “Dialoghi sull’Uomo”.
Lingiardi, professore ordinario di psicologia dinamica presso la Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza di Roma entra subito nel vivo affermando che il termine malattia racchiude in sé un significato complesso e rappresenta un territorio non da invadere ma da esplorare in punta di piedi.
Lo psichiatra porta molti esempi e cita molti testi di autori famosi che parlano dell’esperienza di convivere con la propria malattia. Di come il confine tra la malattia fisica e la malattia mentale sia un aspetto non immediatamente riscontrabile e come la fragilità dell’individuo sia un tema che il medico dovrebbe considerare in maniera più ampia considerando non solo il paziente ma anche i propri familiari.
La malattia diventa per tutti una compagna di vita, che appare ad un certo punto della nostra esistenza. Essa a volte è una presenza momentanea, a volte dura mesi ed anni, altre volte purtroppo dura per sempre. Ed è qui che il relatore cita il “tempo”, una dimensione con la quale fare i conti quando si è malati e fa un accenno più propriamente al senso del tempo. Di quello presente, di quello passato e di quello futuro, di come cambia quando si ha a che fare con una compagna non gradita.
Quando arriva la diagnosi essa ci parla della nostra vita e ci invita a riflettere come conviviamo con la propria caducità e di come riusciamo ad affrontare qualcosa che rompe un equilibrio e va a modificare le nostre relazioni pubbliche e private, diventando un momento di verità personale. Kafka affermava “nella malattia rivedo tutto il mio essere”.
Inizia a questo punto un’analisi su coloro che considerano la propria infermità come un dono, una sorta di idealizzazione benefica della propria malattia. Se questa è una convinzione non sempre condivisibile, è anche vero che rabbia, negazione e disprezzo non portano molto in là la relazione tra il corpo e la patologia diagnosticata.
Non è certo facile essere pazienti come non è certo facile essere medici. Karl Jaspers, psichiatra e filosofo, affermava che “la diagnosi per il medico deve essere un tormento”. E a questo punto la riflessione cade sulla convenienza o meno, da parte del medico, di informare correttamente il malato. Assolutamente sì se si mette in pratica ciò che Pascal riassumeva in due parole: verità e discrezione.
La conferenza è finita e siamo tutti in fila per uscire. Leggo negli occhi di coloro che sono accanto a me un malessere interiore. Qualcuno ha ricordato a tutti che prima o poi ognuno di noi deve fare i conti con una compagna di vita indesiderata ma inevitabile. Il con-dividere le ansie, le attese, le inquietudini e le speranze di chi con-vive con la propria malattia e quindi comprendere e accogliere il dolore degli altri, è anche un modo di non farci trovare impreparati quando anche noi saremo toccati dal dolore.
Nella notte apro gli occhi di colpo. Buio attorno, la casa silenziosa. Non capisco cosa mi abbia svegliato, né l’ansia che ho addosso. Penso alla mia fragilità e a come in un tempo vicino o lontano affronterò il mio vivere, il con-vivere con una compagna indesiderata. Non è una cosa prevedibile e sarà un tempo perduto, morto, una compagna dalle sembianze di serpe da scuotere via. Lontana. Oppure la mia sofferenza conterrà frutti che mi faranno amare ancora di più e più intensamente la vita? Non mi è dato sapere ma una cosa è certa, cercherò di attraversare le prove di dolore che questa mia compagna mi vorrà donare conservando intatta una, seppur lieve, tenerezza.
Durante la celebrazione del Seder di Pésach, la Pasqua ebraica, sulla tavola imbandita compaiono pane azzimo ed erbe amare, il rafano, la lattuga, l’assenzio. Al centro una ciotola di acqua salata nella quale inzuppare sedano, patate e cipolla. Tutto questo per ricordare gli anni della schiavitù in Egitto ma anche la conseguente guadagnata libertà.
Bisogna bere e mangiare l’amaro della vita per avere una chiara concezione della sua dolcezza che altrimenti appare assente, lontana, irraggiungibile.
Alessandro Orlando