Venti giorni fa ricorreva l’anniversario del disastro del Vajont; ogni anno viene celebrato in modo più o meno partecipativo, quest’anno lo stesso Presidente della Repubblica ha riservato un ricordo per quella tragedia; ma il disastro del Vajont non è solo una delle più grandi tragedie “naturali” mai accadute, è, ad oggi, assunto a simbolo della miopia nella gestione di un territorio fragile e complesso.
La sera del 9 ottobre1963 nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont (al confine tra Friuli e Veneto) una frana di 270 milioni di metri cubi di roccia si staccò dal soprastante pendio del Monte Toc (“Toc” in dialetto locale vuol dire “marcio”, quando si dice la toponomastica) finendo nelle acque del bacino alle spalle dell’’omonima diga; questa produsse la tracimazione dell’acqua contenuta nell’invaso e il superamento del coronamento della diga; la diga, a doppio arco, era in quel momento la più grande mai costruita e rimase pressoché intatta a dimostrazione dell’abilità delle aziende italiane di progettazione e costruzione. Il fronte di fango ed acqua si riversò nella forra del fiume per poi raggiungere la vallata del Piave inondando e distruggendo Longarone e una mezza dozzina di paesi limitrofi, l’onda di piena arrivò sino a Belluno danneggiando tutti gli abitati che incontro.
Morirono circa 2.000 persone. Molti dei corpi non furono mai recuperati. All’arrivo dei soccorritori la vallata era una distesa di acqua, fango e detriti, immersa in un innaturale silenzio; la mattina successiva, lungo il corso del fiume Piave, i corpi galleggianti delle vittime, venivano tirati a riva con delle pertiche dalle spallette dei ponti o dalle sponde del corso d’acqua stesso.
Ma quali furono le cause del disastro? Furono gli elementi naturali che si scatenarono improvvisamente oppure si volle costruire una struttura quando le conoscenze scientifiche erano scarse e non approfondite? Ci furono negligenze umane o prevalsero interessi e “ragioni di stato” sui principi di precauzione e su quanto doveva essere fatto “a regola d’arte”?
Dopo tutti questi anni e i processi susseguitisi, possiamo dire che molte di queste cause concorsero e, come sempre accade, un disastro è un concatenarsi di eventi, alcuni dei quali fortuiti, altri dettati dalla superficialità e dalla arroganza.
Dal punto di vista geologico/strutturale la diga era una notevole opera di ingegneria civile; le spallette su cui posava erano solide, tanto che la struttura resse alle sollecitazioni dovute al franamento e al passaggio del fronte di acqua; ma a quel tempo nella costruzione di un invaso artificiale lo studio del bacino di invasamento era sottovalutato, o meglio era importante per i volumi d’acqua che doveva contenere.
Oggi viene studiata soprattutto la stabilità dei versanti non solo al fine di evitare frane e smottamenti nell’area, ma anche di non rendere vana la costruzione della struttura, causando il riempimento dell’invaso stesso. Quindi la conoscenza dell’assetto idrogeologico/morfologico del versante del monte fu oggetto di controversie fin dai primi studi di fattibilità, e da questo ben si comprende che le attività di invasamento e svasamento del bacino non erano governate da criteri; questa attività aveva una doppia funzione: secondo gli studiosi del tempo avrebbe dovuto controllare la frana nei suoi movimenti e quindi produrre uno smottamento “guidato”, in realtà questo non avvenne, anzi, i continui riempimenti e svuotamenti crearono un effetto “dilavamento” delle stratificazioni più profonde su cui poggiava una massa rocciosa enorme; si creò una sorta di piano di scivolamento che innescò prima in modo lento, poi veloce, il movimento della frana.
Inoltre la quantità di acqua ad invaso colmo era una sorta di resistenza al muoversi della stessa massa rocciosa, lo svuotamento pur limitato del invaso toglieva un puntello di sostegno al versante. Inoltre vi era la necessità operativa di completare le prove di collaudo dell’invaso, innalzando e abbassando il livello sino alla quota massima, come richiesto dallo stesse verifiche , questo perché, di lì a poco, l’impianto sarebbe stato consegnato (venduto) dalla società privata costruttrice (SADE) all’appena costituito ente nazionale energia elettrica (ENEL)!
Le prove di collasso del sistema effettuate a suo tempo presso l’Università di Padova, finanziate dalla stessa società privata SADE, furono effettuate per analizzare i possibili scenari di rischio ma rimasero chiuse in un cassetto sino a che un collaboratore del dipartimento di idraulica della stessa Università (denunciato per furto e poi assolto) non le trovò e passarono alle autorità. Infine, nonostante la situazione precipitasse giorno dopo giorno e la stessa mattina del 9 ottobre il comune di Erto e Casso emise una ordinanza di sgombero per alcune frazioni più vicine al lago, nessuno si preoccupò di mettere in allarme e attivare l’evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.
Si preoccuparono invece altre persone degli abitanti di Erto e Casso, i due paesini costruiti in cima al costone, e dei valligiani di Longarone: persone che lottano e si espongono per la comunità, in prima persona per una causa, per combattere le ingiustizie, e che pagano “sulla pelle viva”; tacciata dalle istituzioni, addirittura denunciata alla pubblica autorità per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” e processata dal tribunale di Milano infine assolta da tutte le accuse (poiché il tempo è galantuomo). Questo è stata Tina Merlin. Giornalista del quotidiano “Unità”, giornale di partito per antonomasia. Si schierò apertamente contro la costruzione della diga e denunciò gli interessi che gravitavano attorno ad essa, dando voce a quegli “ignoranti montanari” dei rilievi circostanti.
Per chi volesse approfondire il succedersi degli eventi con una disamina serrata, lucida e completa, invito a leggere la pubblicazione e /o le ristampe: Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont (1ª ed., Milano, La Pietra, 1983).
Una catastrofe è parte integrante della memoria di una nazione e, come spesso accade, il susseguirsi degli eventi, il dolore dei singoli e della comunità producono una rielaborazione del tutto anche in forma di arte, nello specifico siamo in presenza di uno spettacolo di teatro civile: protagonista è Marco Paolini, interprete magistrale e affabulatore, bellunese di nascita che, di questa immane tragedia, ne ha fatto uno spettacolo di 2 ore e mezza –Il racconto del Vajont – Orazione civile 9 ottobre 1963 …- Il teatro è la diga del Vajont o meglio il palcoscenico ha alle spalle la diga e la platea è costruita proprio sull’ammasso di roccia precipitato nell’invaso. L’attore ripercorre tutta la vicenda, dai primi progetti fino al minuto 39 delle ore 22, il momento del distacco della frana……..Lo spettacolo è ancora attuale, reso tale dagli avvenimenti contingenti (sismi, alluvioni, crolli di ponti).
Invito i lettori di Arteventinews, evoluti e sensibili alle manifestazioni dell’arte in tutte le sue accezioni a vedere lo spettacolo, disponibile su youtube a diversi indirizzi, uno dei quali indico di seguito: https://www.youtube.com/watch?v=hjx0iQYoSRI.
Infine nella valle del Piave dove è stata ricostruita la Nuova Longarone esiste anche qualcosa di Pistoia; dopo la tragedia si decise di costruire una chiesa che ricordasse le vittime di quella catastrofe: la chiesa ha un ampio spazio centrale esterno raggiungibile da una scalinata e tale struttura sormonta la chiesa vera e propria, dove si svolgono le funzioni religiose. Come a dire: l’ascensione verso il cielo dopo la dimensione terrena tragica e fatale.
La struttura è diventata un monumento a perenne ricordo delle vittime, i cui nomi sono messi in evidenza a pochi metri dall’entrata principale. Quella chiesa è stata progettata da Giovanni Michelucci (Pistoia, 2 gennaio 1891 – Firenze, 31 dicembre 1990).
Renato Vagaggini
Nicchia di distacco frana Monte Toc (foto 2016; gentilmente concessa – Dr. Geologo Guglielmo Braccesi)
Diga del Vajont (foto 2016; gentilmente concessa – Dr. Geologo Guglielmo Braccesi)
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